In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

‘Fie a Manetta’, le barcaiole veneziane contro il machismo lagunare

Andare in barca nella città lagunare significa vivere la città nella sua dimensione più autentica. Non solo, la pandemia ha dimostrato che in certi casi si tratta di sopravvivenza. Eppure da sempre il mondo delle barche è stato riservato ai soli uomini; una tradizione riservata che viene tramandata da padre a figlio. Fino a qualche mese fa, quando un collettivo di circa cinquanta donne l’ha messa in discussione.

“Fia”, a Venezia, significa ragazza. Un termine dialettale, un po’ sbarazzino e un po’ confidenziale, con cui rivolgersi alle giovani e alle giovanissime. La “manetta” in questione è quella del timone del fuoribordo. Tenerlo “a manetta” vuol dire procedere alla velocità massima del motore. Una traduzione di “Fie a Manetta” potrebbe quindi essere “ragazze a tutto gas”. E, siccome stiamo parlando di laguna, la prima immagine che ci viene in mente è quella di una “fia” che, con i capelli al vento e la mano sinistra sul timone, plana sulle onde a tutta birra, mentre la prua del suo barchino si impenna orgogliosa. Esattamente l’immagine che le ragazze in questione hanno scelto per il loro logo. L’associazione, nata con lo scopo di insegnare alle ragazze di Venezia e delle isole ad andare in barca, è nata in pieno lockdown.

“Una delle conseguenze delle pandemia – racconta Marta Canino, istruttrice e fondatrice delle Fie – è stata quella di far riscoprire alla gente l’importanza di possedere e di saper usare la barca a motore. E questo è stato evidente sopratutto per le donne che dovevano andare a fare la spesa o portare i figli in spiaggia. Con i trasporti pubblici tagliati o affollati oltre il consentito, molte donne rimanevano per ore negli imbarcaderi col carrello della spesa o col passeggino del bambino ad attendere un battello che le prendesse a bordo. E così hanno cominciato ad adoperare la barca del marito o del proprio compagno, all’inizio per necessità ma poi anche per divertimento, scoprendo quanto è divertente andarsene a manetta per i canali”.

Le prime a prendere in mano il timone sono state le ragazze della Giudecca, l’isola divisa dalla città dall’omonimo canale. Quello famoso per l’indecente passaggio – che oramai si spera sia storia passata! – delle Grandi Navi. Un tratto di mare altamente trafficato da croceristi, mezzi pubblici, pescatori, trasporti e quant’altro. Avventurarcisi con un minuscolo barchino per la traversata non è semplice per nessuno. “Durante la pandemia il canale era deserto e molte donne della Giudecca hanno trovato il coraggio per traghettarlo ed andare a fare la spesa nei più forniti supermercati di Venezia”, continua Marta. “Oggi le cose sono tornate, quasi, alla normalità ma le donne oramai hanno scoperto quanto è bello, e utile, andare in barca autonomamente, senza bisogno di un uomo che le accompagni”.

Motori e machismo

In laguna, il mondo della barca a motore – intendendo con questo termine sia le imbarcazioni tradizionali in legno col fuoribordo, i barchini o gli open col timone a volante – è sempre stato un universo riservato agli uomini. Il barchino col 40 cavalli (se sono di più ci vuole la patente nautica) è un po’ l’equivalente del motorino per i ragazzi di terraferma. Lo si chiede ai genitori non appena si hanno compiuti i canonici sedici anni, lo si usa per farsi belli con le ragazze, per scorrazzare con gli amici e anche per farci le classiche idiozie giovanili, tipo le impennate (a Venezia l’equivalente dell’impennata è lo slalom tra le bricole, ed ogni estate qualcuno ci rimette la pelle). Una ragazza da sola in barca col motore lanciato “a manetta”, sino a qualche anno fa, sarebbe stata indicata a dito e fatta oggetto dei più beceri commenti maschilisti sul livello culturale di “donna al volante, pericolo costante”. Andare in barca, per una donna, significa solo praticare la voga veneta, per le più sportive, o la vela, per le più aristocratiche.

“Se un trasportatore incrocia in un canale una barca con un uomo al timone, si mettono d’accordo sulla precedenza”, spiega Marta. “Se incrocia una donna, la guarda come una che sta a perdere tempo e lo fa perdere pure a lui, che sta ‘seriamente’ lavorando. Taxisti e gondolieri, poi, ti scrutano come per scoprire che disastro stai per combinare. E non parliamo dei consigli non richiesti che ti arrivano sempre anche da chi passa per la fondamenta! La prima cosa che insegno alle ragazze che si iscrivono all’associazione è di non cag*rli neppure di striscio! E scusa il francesismo!”

Marta è una veneziana doc, nata nel quartiere popolare di Santa Marta. È tra quelle calli che deve aver imparato il “francese”. Ha preso in mano il suo primo timone a 7 anni. “Guarda dritta davanti a te la linea della prua e mantieniti sempre alla stessa distanza dalle bricole” le diceva lo zio Veniero quando andavano a fare picnic all’isola di Poveglia. Il timone, Marta non lo ha più lasciato e, quando si è trasferita col suo compagno alla Giudecca, ne ha compreso ancora di più l’importanza.

Dalla Giudecca con furore

L’associazione delle “Fie a Manetta” è nata ufficialmente il 26 febbraio scorso. Conta una cinquantina di socie, è affiliata alla Uisp e riconosciuta dal Coni. Ha sede a Sacca Fisola, l’isola legata alla Giudecca da un lungo ponte, e grazie agli amici della Rebiennale – un’associazione che ricicla le installazioni della Biennale per farne arredamenti – si sta per dotare di un vicino approdo sul canale con tutti i comfort.

“Vengono da noi donne di tutte le età, dai sedici ai sessant’anni. So che ti stupirai, ma la maggioranza non sono ragazzine ma signore che hanno passato la quarantina”, mi racconta Alessandra De Marchi, che gestisce il club con Marta. Mi fa accomodare nella sede dell’associazione che tra poco si doterà anche di una biblioteca nautica. “All’inizio erano solo giudecchine o di Fusina ma poi si sono fatte avanti anche veneziane e ultimamente anche una donna di Murano”. Il che, tenendo presente la cagnesca rivalità tra le due isole poste a nord e a sud di Venezia, è un autentico miracolo! “Ci sono ragazze che sanno già andare in barca e che mi portano la loro mamma perché la istruiamo. E poi signore in pensione che vogliono usare la barca di famiglia per andare a fare la spesa o per godersi una giornata in spiaggia senza bisogno di aspettare i comodi del marito. O semplicemente giovani e meno giovani che hanno scoperto la bellezza della laguna e se la vogliono godere in pace”.

Una scuola, questa che hanno messo in piedi le “Fie a Manetta” che non ha equivalenti in Italia. Anzi, diciamo pure nel mondo. Esistono corsi per il conseguimento della patente nautica di vela o di motore, entro od oltre le 12 miglia, ma questi corsi non ti insegnano ad andare in barchino per la laguna con un fuoribordo per l’uso del quale non servono licenze. L’addestramento all’andar per canali, a Venezia, è una tradizione che i padri impartiscono ai figli. Figli, ovviamente, maschi. Le ragazze in barca si limitano a stendersi a prua con la madre e le zie.

“La pandemia quantomeno ha avuto il merito di rendere protagonista il femminile in molte cose come, nel nostro caso, l’utilizzo della barche a motore – spiega Marta – se non altro per andare a far spese, portare i bambini a scuola o in spiaggia. Noi abbiamo cercato di favorire questo salto in avanti. Difficoltà? Tante. Anche perché non ci sono scuole o corsi di questo genere in Italia. Abbiamo dovuto inventarci gli esercizi e tutto l’insegnamento. Io, per fortuna, ho avuto sin da piccola un maestro d’eccezione come mio zio Veniero e l’ho preso da esempio!”

Chi dice donna dice… ambiente

“Fie a Manetta” non è comunque un club esclusivamente femminile. C’è anche una mezza dozzina di uomini che va a lezione da loro. “Noi non escludiamo nessuna e nessuno”, spiega Marta. “L’associazione ha un consiglio direttivo formato da cinque donne, le istruttrici sono donne e ci chiamiamo “Fie a Manetta”, ma se qualche ragazzo vuole imparare ad andare in  barca, perché dovremmo dirgli di no? Col femminismo io ho fatto pace un bel po’ di anni fa”.

A Venezia, Marta è conosciuta anche per le battaglie ambientali fatte come attivista No Grandi Navi. Le chiedo se approfitta delle lezioni per stimolare la consapevolezza delle sue allieve sui problemi di Venezia. “Non ce n’è affatto bisogno!”, incalza lei. “Sono loro stesse a raccontarmi le difficoltà che, in quanto residenti, sono costrette ad affrontare ogni giorno. Andare in barca infatti significa vivere la città nella sua dimensione più autentica. Non ho bisogno di stimolarle perché mi raccontino i disastri provocati da un turismo selvaggio che trasforma le case in hotel o in B&B e che mercifica l’intera città riducendola ad uno sportello di bancomat. Io mi limito a fare da ascoltatrice. Le cose vengono fuori da sole. Una mia allieva un giorno mi ha spiegato che, andando in barca, ha capito che non solo non conosceva affatto la laguna, ma neppure aveva compreso la città in cui era nata. Aveva sempre vissuto sull’acqua senza sapere che viveva sull’acqua”.

Com’è cambiata Ferrara dopo un anno di Lega

Ruspe, tagli al welfare e acquisti sproporzionati di crocefissi. Viaggio a Ferrara un anno dopo l’elezione della prima Giunta leghista. Cosa hanno fatto finora gli amministratori guidati dal volto rassicurante di Alan Fabbri e dal “metodo Naomo” del suo vice Nicola Lodi? 


Ferrara è esplosa di odio e di rabbia poco dopo la mezzanotte. Lo spoglio delle urne non è ancora concluso ma bastano i primi exit poll a far capire che tutto era andato come doveva andare. Il capoluogo della provincia emiliana è conquistato alla Lega che spazza via un centro sinistra frammentato, presuntuoso e rancoroso.

E così, quel 9 giugno di un anno fa, la notte ferrarese si accende di urla, schiamazzi, saluti romani, slogan violenti contro “i negri, i froci e gli zingari”. Le solite categorie “colpevoli” di tutto quanto accade di male in Italia. Qualcuno spara in aria colpi di pistola e nemmeno la polizia interviene. Erano solo “festeggiamenti”, racconteranno il giorno dopo. La cagnare legaiola arriva sino allo scalone del municipio e copre con la bandiera di “Salvini premier” lo striscione di Amnesty dedicato a Giulio Regeni. È soltanto il “trailer” di quanto sta per andare in scena a Palazzo Municipale.

Per la prima volta dalla Liberazione, Ferrara – la colta Ferrara, la città scelta da Internazionale come sede del suo festival, la città dei Finzi Contini, dell’università e della biblioteca Ariostea – cade in mano alla  destra più becera ed ignorate, quella sovranista della lega salviniana.

Più che una caduta, un crollo. Il candidato della destra, Alan Fabbri, ha staccato con più di 13 punti percentuali il rivale Aldo Modonesi schierato dal centro sinistra: 56,8 per cento contro il 43,2.

Del nuovo sindaco di Ferrara c’è da dire che è uno che fa la sua figura. Anzi, che fa solo quella. Barbetta finto-incolta, codino sbarazzino e un po’ ribelle dietro la nuca, aspetto giovanile e piacente. A vederlo sui manifesti elettorali, gli davi pure del progressista. E il progressista, il nostro Alan Fabbri, prova pure a farlo. Appena eletto incontra la madre di Federico Aldrovandi, per dare una impressione di riappacificazione con la città. Gira per le numerose biblioteche cittadine – dove certo non rischia di incontrare i suoi elettori – assicurando che le attività culturali continueranno come prima. Anche il festival di Internazionale continuerà ad essere il fiore all’occhiello della città.

Non alza mai la voce, Alan Fabbri, neppure in consiglio comunale. Con i cittadini che incontra per strada è comprensivo, ti dà sempre regione e, qualsiasi cosa gli si chieda, promette che la sua amministrazione si occuperà del problema. Interpreta il suo ruolo di primo cittadino con un tono talmente sottomesso che ben presto anche i giornalisti locali cominceranno ad ignorarlo e il suo nome scomparirà dai titoli alti dei giornali.

Ma le notizie da pubblicare negli spazi della Cronaca Cittadina non mancheranno di sicuro, soltanto che il protagonista non sarà Alan Fabbri, ma colui che è il vero “sindaco” di Ferrara, il fiore all’occhiello della nuova amministrazione. E qui, ci vorrebbe un bel rullo di tamburi, perché entra in scena lui: il (vice) sindaco Nicola Lodi, meglio conosciuto come “Naomo” per le sue capacità imitative di Panariello.

Naomo è il classico “impresentabile” che si è presentato ed ha vinto. Anzi, stravinto. Con più di mille preferenze è lui il più votato di Ferrara.

Perché abbiamo scritto “impresentabile”? Perché il passato del nostro Naomo ha ben più di un’ombra, con ben quattro sentenze penali e una ammonizione del giudice a suo carico. È stato condannato per furto, sottrazione di beni sottoposti a pignoramento, usurpazione di funzioni pubbliche (fermava i passanti con la pelle scura per chiedere loro i documenti come fosse un carabiniere), una manifestazione non autorizzata, falsa denuncia di infortuni sul lavoro (condanne patteggiate e con il beneficio della non menzione nel casellario giudiziale, stando a quanto ricostruito dal quotidiano ferrarese estense.com). Non che queste faccende gli tormentino la coscienza. “I miei sono solo reati comuni” spiega facendo spallucce ai giornalisti che gliene chiedono conto. E se il giornalista fa notare che non è mica obbligatorio, per una persona perbene, rubare o frodare, arrivano gli insulti. Già, perché il nostro Naomo è un grande moralizzatore di giornalisti. Quelli cui va bene vengono solo etichettati come “vermi”. Quelli a cui va male, come ai colleghi di La7, si sentono minacciare: Vi faremo un culo così. Vi farò male, vi colpirò politicamente. Da lunedì sparirete, tornerete nei meandri da cui siete venuti”.

Avrete capito che il nostro rancoroso pitbull dell’Emilia Romagna, come lo hanno chiamato alcuni colleghi insultati, non è uno che te le manda a dire ma anzi che corre volentieri a cantartele di persona se appena appena gli stai sulle palle o se osi criticare il suo operato. È finita la cuccagna, vedrai il prossimo anno dove ti manderemo!” si è sentita dire la segretaria del Comune, Graziana Bersanetti.

Ma se continuiamo col capitolo “Gli insulti di Naomo” non la finiamo più. Vediamo invece chi è questo personaggio. E, già che ci siamo, saltiamo a piedi pari anche il capitolo “Scuola ed istruzione” dove c’è poca ciccia da mettere sul fuoco. Cominciamo quindi col raccontare che il nostro Naomo di professione è barbiere e, se avete presente i discorsi che si sentono quando si va a tagliarsi i capelli, vi siete già fatti una idea della scuola politica in cui il nostro si è specializzato. Vita travagliata, la sua, perlomeno prima di trovare la fortuna nella politica. Per un periodo della sua storia si è trovato senza dimora ed è stato aiutato da un prete di strada, don Bedin, che ha una associazione che si occupa di poveri e disagiati. La gratitudine non ha mai impedito al nostro Naomo di insultare anche don Bedin quando costui lo ha implorato di risparmiare le ruspe sul campo nomadi. La memoria corta è una qualità molto utile in politica.

A merito del nostro Naomo va sottolineato che, pur senza aver fatto grandi studi di comunicazione, è uno che alla gente sa parlare. E sa anche offrire soluzioni. Anzi, una sola è la soluzione che offre, ma che risolve tutti problemi. L’ha chiamata lui stesso “metodo Naomo” e consiste nel dare “pedate sul culo”. Proprio così! Trovate una sintesi di questo metodo sulla cui efficacia è lecito nutrire qualche dubbio, nel banner della sua pagina Facebook dove lo si vede col piedone alzato rivolto contro i malcapitati di turno. Che poi son sempre gli stessi: “zingari” (rom o sinti, per lui non fa differenza), “clandestini” (il termine “irregolari” è troppo difficile e non rende altrettanto bene lidea), “poveri e senza dimora” (dei vantaggi della memoria corta abbiamo già accennato), “miscredenti” (Naomo è un grande difensore della Romana Chiesa Santa e Apostolica, salvo poi bestemmiare quando pensa che le telecamere non lo stiano registrando).

In una città in cui il centrosinistra ha perso la sua capacità di dialogare con i cittadini, lui piazza nella sua bottega da barbiere un tavolino con una risma di carta sotto la scritta “Ditelo a Naomo” che raccoglie centinaia e centinaia di segnalazioni. Lui risponde a tutti. Per ogni paura, per ogni rancore, per ogni malessere, lui risponde con la sua panacea: il “metodo Naomo”. Quello del “calcio in culo”. Gli slogan che riesce ad inventarsi, corrono sulla bocca di tutta Ferrara. Anche di chi lo contesta. E lui li sfoggia orgogliosamente anche sulle magliette che si fa stampare e con le quali si pavoneggia per le piazze mentre si concede ai selfie dei suoi aficionados, come un generico di Salvini. Celeberrimo è il suo “Più rum e meno rom”. La promozione di se stesso e del suo personaggio è la sua specialità. Le forze dell’ordine multano o chiudono un negozio di stranieri per un qualsiasi motivo? State certi che arriva subito Naomo a fargli una foto, postarla su Fb e scrivere che è tutto merito suo!

E cose da dire ce ne sarebbero tante altre: dal pass per invalidi che usava in maniera quanto meno impropria, alla vasca di idromassaggio che si è fatto montare nel suo alloggio Acer dove non poteva fare modifiche e di cui non aveva neppure diritto ma che ha mantenuto mentendo sulle proprietà immobiliari della compagna.

Ma noi ci fermiamo qua. Anche perché Naomo è solo il domatore di quel vero e proprio circo delle meraviglie che oggi amministra Ferrara. Da raccontare ce ne sarebbero un bel po’ anche su Stefano Solaroli, capogruppo della Lega in consiglio, che si filma su You Tube con la pistola in mano e le piazza sotto il cuscino prima di andare a dormire. “Ho lei con me. So che qualcuno mi criticherà, ma spero che questo video venga condiviso e diventi contagioso”. Fedelissimo di Naomo, Solaroli è usato dal (vice) sindaco per fare pulizia all’interno del suo stesso partito ed espellere chi gli rema contro. Emblematico il caso della consigliera leghista Anna Ferraresi alla quale il capogruppo ha spudoratamente offerto un lavoro a tempo pieno in cambio delle sue dimissioni. La proposta indecente è finita anche su Piazza Pulita ed è costata alla consigliera, poi approdata al Gruppo Misto, una pesante bullizzazione da parte di Naomo e dei suoi fedelissimi.

E che dire dell’assessora alle pari opportunità Dorota Kusiak che pretenderebbe di essere chiamata alla maschile, “assessore” ma che ci perdonerà se diamo più credito all’Accademia della Crusca che alle sue competenze linguistiche e continueremo a declinare al femminile il sostantivo? Il suo unico contributo è stato quello di far acquistare al Comune 385 crocifissi per portarli in processione nelle scuole pubbliche con tanto di fanfare mediatiche al seguito. Altro per le scuole, il Comune non ha fatto. C’è da sperare che ci pensino i Gesù Cristi alla riapertura!

Poi c’è la storia delle panchine del Gad. Che le giunte leghiste come primo provvedimento sradichino le panchine dai parchi è una prassi consolidata. Gli spacciatori, ovviamente, continuano a spacciare esattamente come prima ma perlomeno si devono portare le sedie da casa. E va bene così. L’incredibile è che il quartiere Giardino Arianuova Doro, meglio conosciuto come Gad, è uno dei più tranquilli del mondo. È vero che è la zona di Ferrara in cui molti migranti sono andati a vivere e vi ci trovate botteghe gestite da pakistani, negozi cinesi e sale di preghiera protestanti. Qualcuno spaccia? Può anche essere. Esattamente come in tutto il resto della città. Fatto sta che, scorrendo le cronache nere ferraresi, non ci beccate un episodio di malavita in più che negli altri quartieri neanche a pagarlo oro. Bisogna dare merito alla propaganda leghista se il quartiere è diventato nell’immaginario dei ferraresi uno slum di Città del Capo.

In campagna elettorale ci han pestato duro, sul Gad. Sono scoppiate anche delle risse appositamente provocate da elementi di destra. Anzi, tentativi di rissa, perché la gente del quartiere non mai ha accettato la zuffa. Ma le tv Mediaset ci hanno cucito sopra intere trasmissioni urlate come solo loro sanno urlare. Per la cronaca, un mese fa, il 25 giugno, il Gad è stato oggetto di una maxi-operazione di polizia fortemente voluta dall’amministrazione comunale. Cento uomini con mezzi blindati a supporto hanno perquisito l’area dell’ex grattacielo. Ci hanno trovato circa cento grammi di marijuana, una discreta quantità di affittanze in nero ai danni di famiglie migranti praticate da rispettabilissimi cittadini ferraresi e hanno applicato qualche fermo. Ma c’è speranza che, continuando così, emarginando e ghettizzando, il Gad diventi davvero quel ricettacolo di violenza che i leghisti si augurano.

Che altro rimane da dire per completare la descrizione di questo circo estense? Magari rispondere alla domanda: che cosa ha combinato questa amministrazione nel suo primo anno di attività? A parte le panchine, con la rimozione delle quali hanno sconfitto la mafia, e l’acquisto dei crocifissi che ha riportato nella retta via le traviate scuole ferraresi, non c’è altro da registrare se non lo sgombero di un campo rom che ha avuto come unico effetto lo spostamento delle famiglie nei comuni adiacenti e una invidiabile collezione di selfie di Naomo che ghignava a bordo delle sue amatissime ruspe.

Che Naomo & Co. non fossero dei grandi amministratori, lo si sapeva già dall’inizio e ne hanno dato prova durante l’emergenza coronavirus quando la Giunta ha preteso di gestire da sola l’erogazione dei buoni spesa, imponendo per l’accesso dei personalissimi criteri di cittadinanza che lo stesso Tribunale ha poi bocciato definendoli “discriminatori“. Ma il risultato è stato che 34 mila euro già assegnati dalla Regione non sono stati distribuiti e tante famiglie di migranti – ma anche di italiani perché la procedura di richiesta è stata inutilmente complicata – hanno patito la fame, e si son dovute affidare al buon cuore dei vicini o ad associazioni di carità.

A compensare i tagli sul welfare, ci hanno pensato le spese infilate sotto la voce “Rilancio di Ferrara” e che riguardano l’assunzione di portaborse e comunicatori che si son fatti le suole nella Bestia di Salvini. Assunzioni che non destano sorpresa, considerando l’importanza che la destra sovranista giustamente dà alla comunicazione. Soprattutto a quella che fabbrica fake news. Così come non desta sorpresa il primo provvedimento che la Giunta appena insediatasi ha varato. Prima ancora di far rimuovere le infide panchine, sindaco e assessori si sono aumentati lo stipendio del 10 per cento. La neo-assessora al Personale, Lavoro e Attività Produttive, Angela Travagli, ha giustificato l’aumento dovuto alla necessità di avere una “visione macroeconomica molto più ampia, positiva e sistemica da parte di chi amministra”.

Perché abbiamo occupato il red carpet di Venezia in nome dell'ambiente

Parlano gli attivisti che hanno ‘invaso’ il Festival del Cinema e ricevuto l’appoggio di Mick Jagger e Roger Waters: “Venezia è diventata la città delle navi inquinanti e grandi opere fallimentari; da qui lanciamo l’allarme per tutelare l’ambiente e la biodiversità”
Lo avevano annunciato sin dall’inizio, i giovani del Climate Camp. Come si usa adesso, ne avevano fatto pure un hashtag: #wewanttheredcarpet. Noi vogliamo il tappeto rosso. Il tappeto in questione è quello conduce all’elegante sala delle premiazioni della Mostra del Cinema di Venezia. Quello riservato ai grandi divi dello schermo che fanno passerella tra fan scatenati a chiedere autografi e selfie. Mai, prima di sabato 7 settembre, il tappeto rosso delle celebrità era stato “profanato” da persone che con i luccichii di Hollywood hanno poco da spartire. “Anche se, a ben vedere, di film dedicati a disastri ambientali ed a futuri apocalittici ne sono stati realizzati a centinaia – scherza Chiara Buratti, attivista dello spazio sociale Morion di Venezia -. Stavolta che al futuro apocalittico ci siamo davvero vicini e che, in quando a disastri ambientali, ne avremmo da vendere, ci è sembrato giusto salire sul red carpet per ribadire che i cambiamenti climatici e le devastazioni che comportano, ci piacciono solo nei film di fantascienza”. Chiara è una dei 400 tra ragazze e ragazzi, rigorosamente vestiti di tute bianche, che al sorgere del sole di sabato hanno scalcato la cancellata del Palazzo del Cinema e sono andati a sedersi sul red carpet. Un vero e proprio blitz che ha preso in controtempo le forze dell’ordine, convinte che l’annunciata occupazione dell’ingresso delle Mostra sarebbe stata tentata nel tardo pomeriggio, in occasione della manifestazione cittadina. Alla polizia non è rimasto altro che far cordone attorno agli occupanti, impedendo a tanti altri attivisti che arrivavano da Venezia di raggiungerli per dar loro man forte, rifornirli di cibo e, soprattutto, di acqua, considerato che la giornata era afosa e il sole non dava tregua.

IL TAPPETO ROSSO SI COLORA DI VERDE

L’assedio è durato oltre sette ore. Alla fine, ottenuta la visibilità voluta, gli attivisti se ne sono ritornati pacificamente al Camp. Ma per tutto il tempo che hanno tenuto duro sopra il Red Carpet, non hanno cessato un solo minuto di alternarsi ai megafoni per chiedere, tanto alla politica quanto alla cultura, di riconoscere come tema centrale delle loro agende l’emergenza imposta dai cambiamenti climatici. Una emergenza che ha come posta in gioco il futuro del pianeta. Richiesta rimasta inascoltata dai vertici della Mostra del Cinema, irritati dal fatto che, per la prima volta in 76 edizioni, il loro prezioso tappeto rosso sia stato oltraggiato da attivisti. Solidarietà senza confini invece è arrivata da molti artisti. Su tutti ricordiamo l’intero cast del film “Effetto domino” di Alessandro Rossetto. Alcuni dei suoi interpreti erano seduti sul tappeto con gli attivisti. E ancora l’attore Donald Sutherland e due mostri sacri della musica rock del calibro di Roger Waters e Mick Jagger. “Sono felice che i giovani abbiano occupato il tappeto rosso – ha dichiarato la voce dei Rolling Stones -. Sono loro che erediteranno il pianeta”. Jagger non ha risparmiato una frecciata contro Donald Trump: “Purtroppo negli Usa le leggi che avrebbero aiutato a proteggere il clima sono stati tutte annullate. I ragazzi fanno bene ad arrabbiarsi e a manifestare”. E intanto che qualcuno già twittava che due “semi conosciuti” come Jagger e Waters vanno solo in cerca di visibilità per avere una particina in qualche film, le ragazze e i ragazzi sopra il carpet cambiavano il loro hashtag in: #greenredcarpet. “Abbiamo colorato di verde il tappeto rosso”.

CANNONATE CONTRO IL CAMPANILE DI SAN MARCO

Quindici minuti a piedi dai fasti della Mostra del Cinema di Venezia, proprio nel cuore della lunga striscia di terra del Lido che separa la laguna dal mare Adriatico, c’è un forte militare abbandonato che risale agli inizi del secolo scorso. Nella seconda guerra, dopo l’armistizio, i soldati tedeschi che lo avevano occupato, minacciarono di tirare cannonate contro il campanile di San Marco. Con una azione esemplare, i partigiani riuscirono a disarmare la guarnigione nazista che si arrese prima di fare il tiro a segno sulla Piazza. Non è facile trovare il forte. Tutta la struttura è coperta da una fitta vegetazione e solo un branco di capre selvatiche portato là negli anni ‘70 da qualche figlio dei fiori riesce ad arrampicarsi sopra le mura per pascolare. Proprio qui i ragazzi e le ragazze di Fridays For Future e gli attivisti del comitato No Grandi Navi hanno deciso di realizzare il Climate Camp, il primo campeggio dedicato alla difesa del clima. “C’è voluto una settimana di lavoro ai nostri quaranta attivisti, per ripulire tutto, fare amicizia con le capre e rendere l’area utilizzabile anche per chi vorrà continuare ad utilizzare l’area quando noi ce ne saremo andati” ci spiega Anna Irma Battino, giornalista di Global Project, il portale che ha curato la comunicazione del Camp.

TUTTO AD IMPATTO ZERO

L’invito lanciato da FfF e dai No Navi a venire a Venezia con la tenda e il sacco a pelo per partecipare ai cinque giorni di campeggio climatico è stato accolto da un migliaio di attivisti provenienti da tutta Europa, in rappresentanza di tantissimi movimenti e associazioni. Ho incontrato un gruppo di ragazze e ragazzi provenienti dalla città tedesca di Colonia che sono arrivati in laguna a piedi. Greta ne sarebbe entusiasta. Sono studenti universitari che militano nel comitato Ende Gelände che lotta per chiudere la miniera di carbone di Garzweiler, uno dei siti più inquinanti e inquinanti dell’Ue. Per arrivare a Venezia ci hanno impiegato tutte le vacanze ma, dicono, ne valeva la pena “perché chi non ha mai viaggiato a piedi non può dire di sapere cosa vuol dire viaggiare”. Al ritorno però, mi assicurano, prenderanno un treno. Al Camp si sono trovati bene. Hanno fatto le pulci alla struttura con un piglio davvero “teutonico” e l’hanno promossa a pieni voti. La cucina era completamente vegana e ha usato solo verdure coltivate nell’isola apposta per il Camp. A chilometro “super zero”, insomma. Le stoviglie e i bicchieri erano tutti riutilizzabili e prima di restituirli per avere indietro l’euro di caparra toccava lavarli e con detersivi eco-compatibili. E ancora: energia proveniente solo da un impianto fotovoltaico, biciclette per tutti, raccolta differenziata spinta, flora e fauna del litorale rispettata, capre comprese. Pure le zanzare sono state allontanate con prodotti biologici.

PENSIERI, PAROLE, OPERE E OMISSIONI

L’obiettivo del Climate Camp era quello di costruire dal basso un percorso di lotta europeo e condiviso per contrastare i cambiamenti climatici. Senza dimenticare che questa è fondamentalmente una lotta contro il capitalismo. Capitalismo che non è soltanto la causa dei cambiamenti climatici, ma anche dei dei disastri che produce e di cui si nutre, trasformandoli in merce e profitto. Senza questa premessa, come sottolineava Chico Mendes, l’ambientalismo non sarebbe altro che volenteroso giardinaggio. Le azioni come l’occupazione del red carpet, la grande manifestazione finale che ha visto sfilare nelle strade del Lido alcune migliaia di persone dietro le bandiere dei No Navi, e anche la “battaglia navale” del venerdì, in cui una ventina di imbarcazioni ha inseguito la Msc Lirica sul canale della Giudecca mentre le lance della polizia cercavano di allontanarle, sono state precedute da incontri e discussioni che hanno visto la partecipazione di tanti relatori provenienti da tutta Europa e anche dal resto del mondo, come Moira Millán, portavoce del popolo mapuche della Patagonia, e Nnimmo Bassey, attivista nigeriano. Il tutto diviso in tre grandi tematiche: Grandi opere, migrazioni e ecofemminismo. I tre campi di battaglia in cui si giocherà la partita per il futuro della Terra.

VENEZIA B

Venezia, città fondata su un irripetibile equilibrio tra terra e mare, luogo d’incontro tra oriente ed occidente, crogiolo di lingue mediterranee e porto sempre aperto per i viaggiatori che arrivavano dalle altre sponde del mare, è stata la poetica ed emblematica cornice che ha donato prestigio al Climate Camp. “Proprio da questa città in cui i finanziamenti destinati alla salvaguardia sono stati dirottati alla realizzazione di una grande opera come il Mose, che si è rivelata fallimentare e devastante per l’ambiente; proprio da questa città dove le enormi ed inquinanti navi da crociera continuano a transitare indisturbate a pochi metri da piazza San Marco – ha sottolineato Marco Baravalle, portavoce del Sale Docks – proprio da questa città che sarà una delle prime a venire colpita dall’innalzamento del mare, vogliamo lanciare un appello affinché venga invertita una rotta che non porta verso nessun futuro, fermando la politica delle grandi opere e del consumo indiscriminato del suolo, per tutelare l’ambiente e la biodiversità”. Se è vero quello che dice Greta Thunberg che non abbiamo un piano b, è altrettanto vero che non abbiamo neppure una Venezia di riserva.

In Veneto c'è un'enclave dell'accoglienza

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Qui tra i monti del Cadore
oggi è un giorno un po' speciale,
gli invitati sono in tanti
e tre coppie a festeggiare.
In paese le notizia ha stupito anche il prete,
Tre figlie con la mano con un giovane africano!

Cinquemila persone sfilano tra le calli e i campi di Venezia. Cinquemila persone in marcia per l'umanità, dietro ad un grande striscione ricamato con la scritta "Side by side", fianco a fianco. Sono ragazze e ragazzi degli spazi sociali del Veneto, sono migranti, sono "seconde generazioni", sono cittadine e cittadine, sono profughi, richiedenti asilo, attivisti di associazioni umanitarie e di diritti umani.
Cinquemila persone che hanno risposto così all'appello del City Plaza di Atene e della Campagna #overthefortress di Melting Pot, a scendere nelle piazze d'Europa - nei "campi" nel nostro caso lagunare - per dare corpo e parole a quanti non possono rassegnarsi ad accettare un presente di odio, barbarie e falsa informazione.

Cinquemila persone e una sola, ripeto, una sola!, fascia tricolore. Ed è stato così che, in una domenica 19 marzo accarezzata di primi zefiri primaverili, ho conosciuto Alessandra Buzzo, sindaca di Santo Stefano di Cadore. Alessandra è una bella signora bionda dall'aspetto giovanile. Non mi sogno nemmeno di azzardarle una età. Veste in maniera semplice, come si conviene ad una manifestazione: jeans, scarpe da ginnastica e una giacca a vento imbottita gialla. Lassù, nella verdi vallate del Cadore, deve fare ancora freddo. E' venuta a Venezia come sindaca, con tanto di fascia tricolore, come abbiamo detto. Santo Stefano, tra tutti i 576 Comuni del Veneto, è quindi l'unico che ha ufficialmente aderito all'iniziativa per i diritti dei migranti.

E se la cosa non vi stupisce abbastanza è perché non conoscete il Veneto. L'aria che tira da queste parti, e soprattutto tra i Comuni di montagna, è quella delle barricate contro chi viene dal mare, dei Gonfaloni di San Marco usati a sproposito (la Serenissima era assai più accogliente, e guardava più al Mediterraneo che alle Alpi), degli albergatori che protestano perché i profughi danneggiano il turismo, dei sindaci che rifiutano di accogliere perché il loro Comune ha già troppi problemi per caricarsene di altri, dei cretini che hanno paura delle malattie portate dai migranti e magari poi rifiutano di far vaccinare il figlio, dei predicatori del "non possiamo accogliere tutti" per non accogliere nessuno.

Cantano ancora i Modena City Ramblers. (Poi spieghiamo il perché della scelta di questa canzone a dare musica all'articolo).

C'è chi dice " non so razzista
ma ci tengo alla mia valle" …
e chi storce pure il naso
e alle spalle va a colpire.


E riprendiamo a raccontare di Alessandra Buzzo. Quando mi si è presentata, nel bel mezzo del corteo, ho subito pensato che era un nome che avevo già sentito. Ma dove? E' bastata una ricerca in rete per ricordare il fatto di cronaca che l'aveva resa famosa. E' la sindaca del paese dove i fedeli avevano intimato al prete di non dare la comunione ai profughi!
Facciamo raccontare a lei come è andata la faccenda.
Siamo a Santo Stefano di Cadore, piccolo paese con poco più di 2600 abitanti sovrastato dal monte Col e posto alla confluenza del fiume Piave, sacro alla patria, col torrente Padola. La provincia quella di Belluno. Profondo Veneto. E' venerdì 13 maggio dell'anno del signore 2011. Non nel medioevo. Nel 2011.

"La prefettura mi aveva telefonato alle 16 per dirmi che un pullman con 90 ragazzi in fuga dalla guerra e dalla fame sarebbe arrivato nel mio Comune verso le 20 di quella sera stessa. Lì per lì, mi venne da rispondergli che non se ne parlava neppure. Che, quantomeno, avrebbero dovuto avvisarmi con qualche giorno di anticipo. Ma poi ho pensato: e se ci fosse uno dei miei figli là in mezzo? E se io fossi una delle madri di questi ragazzi, come vorrei che fosse trattato mio figlio? Così non ci ho pensato più sù, e, grazie all'aiuto di un gruppo di volontari, ho sistemato 90 brande e preparato 90 pasti. Ci son cose per cui i calcoli politici non valgono nulla. Di fronte a qualcuno che ha bisogno, c'è una cosa sola che una sindaca può fare: darsi da fare ad aiutarlo. Certamente, i miei concittadini non l'hanno presa bene. Nei giorni successivi gruppi di genitori hanno picchettato la scuola dove lavoro come amministrativa. E la cosa più sconvolgente è successa la domenica, quando qualcuno di questi ragazzi in fuga, ha voluto andare a messa! Le mamme sono insorte contro il parroco chiedendogli di non dare la comunione ai loro figli con le stesse mani con le quali aveva toccato i profughi!"

Vien da chiedersi se Gesù Cristo si disinfettava le mani prima di moltiplicare pani e pesci, con tutti quei luridi palestinesi che toccava ogni giorno.
Ma a parte queste amenità, desta qualche perplessità il comportamento della Prefettura, che avvisa un Comune con solo 4 ore di anticipo sull'arrivo di 90 persone alle quali trovare una sistemazione.
"Come venni a sapere dopo, fu una sorta di punizione. Nel 2011 assistevamo ai primi arrivi di migranti e già tutti gli altri sindaci dei Comuni del Cadore, tutti leghisti o di quanto meno di destra, avevano alzato muri, minacciando di sbarrare l'ingresso del loro paese con le barricate. Io ero l'unica che diceva che accogliere era un obbligo e che un amministratore non può negare il proprio aiuto di fronte a certe terribili situazioni. Che noi non siamo stati eletti solo per sistemare i buchi delle strade. Noi abbiamo il dovere morale di trasmettere valori ai nostri concittadini e di testimoniarli con le nostre azioni! Facevamo di quelle litigate… Così, quando sono arrivati i primi profughi, li hanno scaricati tutti a me invece di dividerli per Comune, come sarebbe stato più logico, più giusto e anche più funzionale. Devono aver pensato: 'Vediamo come se la cava, quella, con tutte le sue teorie sull'accoglienza'"

Eran magri e spaventati quando qui sono arrivati,
quando qui sono arrivati,
Clandestini sulla nave,
poi il destino gli ha portati
dove il mare è un miraggio
e la neve invece e nera,
con magliette e infradito a scalare un sogno ardito.


"Quando sono arrivati, ero piena di paura di non riuscire a gestire la situazione. Ho delle precise responsabilità anche nei confronti dei miei concittadini. Così, ho detto loro: 'Guardiamoci negli occhi. Io farò di tutto per aiutarvi. Voi fate di tutto per non crearmi problemi'. Non me ne hanno creati. Né dopo, né mai".

C'è chi vince il pregiudizio
e rincorre un po' d'amore


"Avevano la paura dipinta negli occhi. Ho chiesto loro di cosa avessero bisogno e mi hanno risposti tutti che volevano telefonare a casa, per dire alle loro famiglia che stavano bene e che erano arrivati in Europa. Nessuno aveva ancora dato loro un telefono o una scheda. Così ho messo a loro disposizione il mio. Ancora oggi, qualcuno mi chiama per sbaglio dall'Africa perché ha memorizzato il mio numero".
A creare problemi ad Alessandra non sono stati i migranti ma pregiudizio, ignoranza ed intolleranza. Terreno fertile per l'opposizione leghista che, alle amministrative del maggio del 2014, han provato a scalzarla dalla carica di sindaca. Eppure Alessandra è stata rieletta. Forse che è riuscita a far cambiare idea ai suoi concittadini sui profughi? "A qualcuno, forse. Ma diciamo meglio che il lavoro di una sindaca non si misura solo con un metro. Io non ho mai delegato e mi sono sempre assunta le mie responsabilità. Sono sempre stata in prima linea, con coerenza, nella battaglie per la sanità, l'ambiente e la viabilità. I cittadini hanno riconosciuto il lavoro che ho fatto a vantaggio di tutta la comunità. Certo, se fossero nati problemi con i migranti l'avrei pagata cara, ma il fatto che tutto sia andato bene, anzi, benissimo, mi ha aiutata. Questa è una prova che, se il problema viene gestito bene, alla fine è una risorsa in più. Abbiamo affidato loro dei lavori, come la tinteggiatura del municipio e dell'anagrafe, per cui non trovavamo manodopera. Affittando le case di alcune signore anziane, permettono loro di pagare la retta della casa di riposo… Senza contare che la nostra valle ha il problema dello spopolamento. Alcuni di questi ragazzi si sono fermati ed ora fanno parte della comunità. Tre hanno sposato ragazze locali, una delle quali è mia figlia, e ora sono nonna. I Modena City Ramblers ci hanno scritto pure una canzone".

I confetti sono pronti mandorla e cioccolato,
ebano ed avorio insieme,
una promessa e un bacio.
brillano le fedi
e il bouquet volan suol Piav


La canzone, che è quella che citiamo sin dall'inizio dell'articolo, è intitolata "Fiori d'arancio e chicchi di caffè" e fa parte del loro album "Niente di nuovo sul fronte occidentale".

Oggi, la sindaca Alessandra del Cadore che sfila senza paura accanto ai "violenti dei centri sociali" di Venezia, oltre ad un nipote in più, ha anche un figlio in più. E con la pelle tutta nera. Uno di questi 90 ragazzi, con il quale si era creato un legame speciale, si è fermato a casa sua, è stato adottato e ora la chiama mamma.
"In realtà, sono in tanti, tra quei primi 90 arrivati a Santo Stefano a chiamarmi mamma. Di tutti loro so dove sono e come se la passano, siamo amici sui social e li seguo con affetto. E poi c'è quel ragazzo bengalese che prima di partire mi ha chiesto quando è il mio compleanno. Ora lavora a Roma in una agenzia turistica ma ogni anno, quel giorno per me speciale, sale in Cadore a portare un regalo per me e uno per il mio compagno".

Uomo nero la strada ti chiama, infradito e polsi del tuo cielo nero.
Fratello dalla pelle di tabarro è la paura che ti veste ad ogni ballo,
il ballo della gente che non sa dire niente,
il ballo di chi è povero ma diversamente da te che non sei di pelle uguale a noi,
da te che non hai qui cresciuto i tuoi figli. Ci saranno corvi in volo sopra questi monti,
nuvole maligne a nascondere i tramonti tra le strade di montagne confidano nei ponti,
quindi adesso lancia il riso e balla!

La cittadella della povertà e i reggiseni delle vigilesse

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La questione ruota tutta attorno al concetto di "decoro". Concetto che ognuno interpreta a modo suo. Vediamo due esempi: i poveri e i reggiseni delle vigilesse. Per il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, meglio conosciuto come "il Gigio da Spinea" da quei veneziani che non lo amano, i poveri sono indecorosi. Sono sporchi, soprattutto da quando l'amministrazione ha tagliato le docce dove andavano a lavarsi, qualche volta puzzano, non hanno un posto dove dormire, anche perché detta amministrazione ha chiuso le cooperative che davano loro un letto, tra loro qualcuno rubacchia o spaccia droga (questo non è vero, altrimenti non sarebbero poveri, ma il Gigio da Spinea ne è convinto), e poi - questo è indiscutibile - continuano a non curare l'eleganza e si infilano tutti gli stracci che trovano nelle immondizie per combattere il freddo. Insomma, sono indecorosi!
Il secondo esempio, riguarda le donne vigile. Ieri, il sindaco ha fatto la rituale comparsata per augurare buon natale ai cittadine decorosi in piazza Ferretto, in pieno centro a Mestre, con una mimetica addosso. Sì… l'altra parola che tiene banco da quando hanno eletto il Gigio da Spinea, è "sicurezza". Metti che ci sia un attentato, beh, lui ha già la mimetica addosso. Tra una cosa e l'altra, il primo cittadino di Venezia ha pensato bene di prendersela con le vigilesse. Si truccano troppo e indossano reggiseni non consoni. Qualche volta, dice il Gigio, non se lo mettono nemmeno il reggiseno.

Io, ve lo giuro, non me ne ero mai accorto. Fatto sta che adesso, in Laguna, ogni volta che passa una donna vigile tutti a misurarla con gli occhi e a fare supposizioni!
Tutto questo, dice il Brugnaro, è indecoroso, perché anche le donne vigile, al pari degli uomini, rappresentano Venezia agli occhi del mondo. Evidentemente, non si può rappresentare Venezia senza reggiseno!

Bisogna anche spiegare che il Gigio da Spinea con le vigilesse nostrane non ci è mai andato d'accordo. Colpa delle pistole. Colpa della "sicurezza". Il Gigio, appena eletto, ha armato di pistola tutti i vigili. Costo non indifferente da sostenere, ma, se vogliamo la "sicurezza", non basta girare in mimetica!
Fatto sta nessun vigile è rimasto contento del regalo e sette donne gli hanno pure risposto picche. La sicurezza non è andare in giro armati, hanno spiegato. I compiti di un vigile non sono quelli di un carabiniere o di un poliziotto. Altre sono le questioni che un vigile è chiamato ad affrontare e nessuna di queste si risolve con una pistolettata. Le pistole sono sempre pericolose, specie se chi le porta, come il corpo di polizia municipale, non è addestrato per usarle. E poi, metti che avvenga uno scippo, cosa dovremo fare? Sparare in mezzo alle calli? Caro sindaco, non siamo Tex Willer e la pistola non la vogliamo.
La questione sta andando per tribunali e sindacati. Ma intanto il Gigio da Spinea ha scoperto che può costringerle a non truccarsi ed a mettere un reggiseno "decoroso", e lo ha fatto.
Ce n'è anche per i colleghi uomini, eh? Niente piercing, niente capelli lunghi e niente tatuaggi. E se poi uno ha il Leone Marciano tatuato su una chiappa, voglio vederlo il Gigio, che glielo va a scovare per licenziarlo!
Non che gli altri dipendenti comunali, lo abbiano particolarmente in simpatia, il nostro sindaco, considerato che giusto lunedì c'è voluto un battaglione della celere per impedire a duecento precari licenziati di mettergli le mani addosso quando hanno assalto il consiglio comunale.

Dico questo per darvi una idea di quali pericoli ed insidie nasconda il sempre antipatico concetto di "decoro". Le soluzioni, poi, sono ancora peggio. Quella ai "troppi poveri indecorosi" - perlomeno 500 persone, secondo le stime della Caritas, vivono in stato di completa indigenza a Venezia - è sin troppo facile, per il Gigio. "Penso ad una cittadella della povertà che allontani i poveri dalle zone residenziali e dal centro, dove concentrare mense e servizi" ha spiegato. Non ha inventato niente, il Gigio da Spinea. Di slum e favellas è pieno il mondo. Di quartieri ghetto, la terra. Fa solo specie che chi non ce li ha, pensi ad istituirli d'ufficio.

Ai giornalisti che hanno chiesto dove dovrebbe sorgere questa… cittadella, il sindaco ha risposto: "Io lo so ma non ve lo dico". E qui ci sta tutto il concetto di democrazia di uno come il Brugnaro che appena eletto vuole vendere i quadri del Comune e si incavola quando gli spiegano che non lo può fare. Oppure quando a uno studente che lo contestava civilmente in un dibattito ha urlato: "Io, te ti aspetto fuori!" Oppure quando ha esautorato tutte le municipalità e si è circondato di assessori senza deleghe effettive perché nelle aziende che vogliono fare "schei" troppa "democrazia" impedisce al capo di prendere le decisioni. Oppure quando al referendum costituzionale dichiara ai giornalisti che, nella sua opinione, ci ha ragione il Brunetta e il fronte del No ma che voterà Sì perché glielo ha chiesto Renzi e lui, per principio, si allinea sempre con quelli che comandano. Oppure… va beh, avete intuito, immagino.

"Cosa volete? - commenta il politologo veneziano Beppe Caccia - siamo in un periodo di interregno, tanto per citare Gramsci, il vecchio muore ma il nuovo non può nascere. E in questo periodo sospeso si verificano i fenomeni morbosi più svariati. Trump e Brugnaro ne sono due efficaci esempi".
Ah sì, Trump. Il Gigio da Spinea ne è un accanito sostenitore. Gli ha scritto una lettera per invitarlo in laguna assieme ad un altri due "suoi" idoli della democrazia, Putin ed Erdogan. Già me li vedo, tutti insieme appassionatamente a spasso per piazza San Marco. Come si dice da queste parti, "Speriamo nell'acqua alta".

Ma torniamo alla famosa cittadella tutta per i poveri da costruire dove non ci è dato sapere ma senz'altro in qualche periferia già degradata di per suo così da non doverci lavorare più di tanto per degradarla ancora di più.
"Ma davvero c'è qualcuno che si stupisce se il Brugnaro non vuole poveri, accattoni, tossici e barboni in centro? - si chiede provocatoriamente Vittoria Scarpa, attivista del cso Rivolta e portavoce della cooperativa Caracol che lavora con l'emarginazione offrendo posti letto al caldo e coperte a chi ne ha bisogno. Cooperativa naturalmente scaricata dall'amministrazione Brugnaro -. A Mestre sono state rimosse le panchine perché i senza casa ci si sedevano, è stata tolta la fermata dell'autobus, piazzale Donatori è stata trasformata in una scoassera (immondezzaio.ndr) piuttosto che fosse frequentato da chi non ha casa casa. Gli operatori in strada sono sempre di meno, perché ora il must è 'aiutiamo solo chi vuole redimersi'. Come se la povertà fosse una scelta o una colpa! Chi lavorava nel sociale e ha denunciato le vergognose politiche di questa giunta è stato sostituito da quelli che fino a ieri vendevano panchine di legno e oggi da bravi lacchè ammaestrati fanno da palcoscenico al finto assessore buono! Si vantano di progetti che non sono loro e non sanno che sono nati dalle nostre occupazioni delle stazioni nei giorni freddi. Ma noi non lo facevamo per togliere i poveri da sotto gli occhi della città per bene e neanche per carità cristiana. Noi ci siamo battuti e ci batteremo ancora per garantire a tutti i loro diritti. Ma il sindaco e l'assessore non sanno neanche cosa significhi questa parola".

Purtroppo per il brugnaro, il progetto della cittadella dei poveri nasce già in salita. Le mense colpevoli di attirare i poveri da spostare nella famosa cittadella appartengono tutte alla curia patriarcale e non al Comune. Immediata la replica del patriarca Francesco Moraglia: "La città non può emarginare realtà che appartengono al vivere sociale. Se c’è da organizzare meglio le mense, ci impegneremo perché questo avvenga, però portare tutto in un luogo deputato alla carità, quasi come se ci fossero barriere divisive all’interno della comunità civica e sociale, questo no. Così si crea emarginazione su emarginazione".
Adesso bisogna vedere cosa risponderà il Gigio da Spinea che certo non ama essere contraddetto, lui che si è fatto i soldi creando una società di lavoro interinale! E' una fortuna per il patriarca di Venezia non aver bisogno di portare reggiseni!

Quell'ebraismo che rifiuta il sionismo

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La Terra Santa? "Appartiene esclusivamente al popolo Palestinese". Israele? "Uno stato illegittimo che non ha nessuna ragione di esistere". Ebraismo e sionismo? "Due concetti antitetici". Il chassidismo rifiuta il principio che sta alla base di questa ideologia: quello del diritto degli ebrei ad avere un loro Stato. Perlomeno sino a che il promesso Messia non busserà alle porte di Gerusalemme, inaugurando un'era di pace e prosperità sia per i vivi che per i morti. "Nell'attesa, noi preghiamo per un immediato e pacifico smantellamento dello Stato di Israele, perché i sionisti abbandonino la loro criminale ideologia e perché la terra di Palestina venga restituita ai loro legittimi proprietari. Così che anche in quei luoghi si possa tornare a vivere in pace come era nel passato". Parola di ebreo. Anzi, parola di rabbino: Yisroel Dovid Weiss, religioso ortodosso appartenente al movimento chassidista e noto attivista anti sionista, portavoce dell'organizzazione Neturei Karta (traducibile dall'aramaico come "i guardiani della città"). Assieme al discepolo Yehoshua Rosenberger, rabbi Weiss, martedì 29 novembre, in occasione della giornata che l'Onu dedica ai diritti dei palestinesi, è venuto a Venezia dagli Stati Uniti dove risiede per spiegare che quanto il governo israeliano sta portando avanti nella Terra Santa è un crimine che nulla ha a che vedere con l'ebraismo.
Per gridare al mondo la sua denuncia, rabbi Weiss si è scelto un palcoscenico mica male: piazza San Marco. I due ortodossi hanno chiesto l'appoggio di alcuni militanti per i diritti dei palestinesi di Venezia. Appoggio, detto per inciso, non poco problematico perché i due rabbini ortodossi debbono seguire regole rigidissime, tanto nell'alimentazione quando nel vestire e nel rapportarsi con gli altri. Gli è vietato, tanto per fare un esempio, non soltanto sfiorare un essere di genere femminile ma anche farsi inquadrare in una fotografia assieme ad una donna. Il che, in una piazza perennemente strapiena di turisti come quella di San Marco, è una pretesa non da poco. Anche le regole che rabbi Weiss detta per l'iniziativa sono alquanto particolari. Le riprese e le foto non devono inquadrarlo davanti a chiese o edifici religiosi. Così sceglie lo sfondo del palazzo Ducale, dopo essersi assicurato che il governo della Serenissima, ai suoi bei tempi, fosse sufficientemente laico. Niente altoparlanti ma solo la voce diretta, lingua inglese o ebraica. Solo i due religiosi inoltre, dovranno sostenere il cartello con la denuncia di Israele. Che si cominci la piazzata con "solo" un paio di ore di ritardo, era il minimo che ci si potesse aspettare. I due chassidim hanno un orologio tutto per conto loro. Si parte verso le sei di sera in una piazza San Marco che non è mai deserta. Quando rabbi Weiss comincia a parlare ad alta voce, dietro quel cartello con scritto, in italiano, l'ebraismo rifiuta il sionismo e lo Stato di Israele, si forma subito un capannello di turisti incuriositi dai nostri personaggi che, detto senza offesa, sembrano un anticipo di carnevale. E cominciano subito le contestazioni. Già, perché tra tanta gente da tutto il mondo non manca mai qualche turista israeliano che, sul sionismo, la pensa in tutt'altra maniera. Non passa un quarto d'ora che una viaggiatrice israeliana, particolarmente incavolata dall'acceso battibecco sostenuto col rabbino, telefona alla polizia. In tre minuti arrivano, nell'ordine, due vigili di piazza e una vigilessa, due soldati armati con bombe, maschere antigas e mitraglie come se fossero sulle strade di Mosul, con un poliziotto a sostegno (sono le famose ronde per la "sicurezza" che il sindaco di Venezia apprezza tanto), due carabinieri, altri due poliziotti in divisa e uno della Digos in borghese. C'è da sottolineare che la sceneggiata che ne è nata aveva il suo lato comico. Nessuno di questi signori spiaccicava una sola parola di inglese, per tacer dell'ebraico, inoltre nessuno di loro aveva idea che esistessero ebrei ortodossi antisionisti. I cartelli che denunciavano Israele, in mano a due uomini che possedevano tutte le caratteristiche del tipico ebreo da film, li spiazzava non poco. Quando i due rabbini hanno esibito regolari passaporti a Stelle e strisce, e non di qualche strano stan ex sovietico, i tutori dell'ordine hanno cominciato a pensare che le cose fossero più complicate del previsto. Come se non bastasse, tra tutte quelle forze in campo, non era neppure chiaro chi dovesse prendersi la responsabilità di decidere se portarli dentro per accertamenti o limitarsi a sgomberare il sit in. Ma un passaporto rilasciato dagli Usa dà sempre qualche vantaggio rispetto ad uno emesso in Libia o in Sudan. Così, una volta resisi conto che la questione era sì complicata ma non rientrava nel genere "attentato terroristico di matrice islamica", hanno optato per un saggio "lasciamo perdere". Non senza aver prima preso i documenti di un paio di italianissime persone che si erano gentilmente offerte di fare da interpreti con l'inglese ed essersi accertati che i due rabbini si incamminassero verso il loro albergo. Senza voler entrare nel merito della delicata questione se la causa palestinese tragga o no vantaggio da un sostegno che, per così dire, arriva dalle file dell'integralismo religioso ebraico, va sottolineato che l'iniziativa dei due rabbini nordamericani ha avuto quanto meno il merito di mettere il dito nella piaga del problema: l'uguaglianza ebreo = israeliano = sionista, con la quale Israele giustifica le sue continue violazioni ai diritti dei palestinesi, non ha motivo di essere. Si può essere ebreo senza essere sionista e si può essere sionista senza essere ebreo. "L'ebraismo è una religione, una forma di spiritualità, mentre il sionismo è una ideologia nazionalistica che non ha nulla a che vedere con la religione ebraica – spiega rabbi Weiss-. Più di un secolo fa, qualcuno decise di creare uno Stato per il popolo ebraico mentre noi crediamo fermamente che questo ci è proibito perché siamo stati esiliati dalla Terra Santa per decreto divino. Israele è stata creata sull'oppressione di un intero popolo e continua ancora ad opprimere commettendo continue violenze e atrocità. Noi ebrei non possiamo che ribadire che questo è un crimine. Nei dieci comandamenti è scritto 'non uccidere' e 'non rubare'. Eppure al mondo viene data l'impressione che i crimini sionisti siano commessi in nome del popolo ebraico, quando simili azioni sono espressamente proibite nella Torah". Eppure Israele continua ad essere appoggiata dalla maggior parte dei governi. Come vede questo sostegno? "Il mondo deve capire che l'appoggio allo Stato di Israele non è assolutamente di aiuto al popolo ebraico. Al contrario, il sionismo sta favorendo la ripresa dell'antisemitismo. Alla gente viene fatto credere che tutti gli ebrei siano favorevoli allo Stato di Israele, mentre, di fatto, ci sono centinaia di migliaia di ebrei che si oppongono all'esistenza stessa di uno Stato fondato su una ideologia nazionalista. A Gerusalemme comunità religiose cristiane, ebraiche e musulmane vissero in armonia per secoli. Fu l'intervento di questo movimento politico, il sionismo, che occupò le terre e commise crimini inauditi, a scatenare l'odio e la violenza che vediamo ancora oggi". Quali sono le soluzioni per portare la pace in Palestina? "Ce n'è una sola di soluzione che è anche la cosa giusta da fare: la Terra Santa appartiene ai palestinesi e a loro va restituita".

La fattoria senza padroni

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Nelle colline del Chianti, tra filari di viti e boschi di ulivi, c'è una fattoria senza padroni. E per raccontare la sua storia, partiremo dalla fine.
Siamo a pochi chilometri da Firenze. Trovare la fattoria non è facile perché bisogna indovinare lo sterrato giusto, dopo aver navigato a vista su una matassa di stradine sali e scendi, badando di non farsi distrarre dallo splendore artistico della cupola del Brunelleschi, che appare e scompare in lontananza, marcando il cuore del capoluogo toscano, adagiato nella valle dell'Arno. In quell'oasi di verde collinare, sembra impossibile che Firenze possa essere così vicina.
Capiamo di essere arrivati a destinazione quando vediamo un cartello della Monsanto. Già! Solo che sopra qualcuno ci ha disegnato un ragazzo armato di pennello che cancella il "santo" per sostituirlo con "deggi", tanto per rimarcare che da queste parti si respira tutta un'altra idea di agricoltura. Il nome della fattoria senza padroni è proprio Mondeggi. "Mondeggi Bene Comune", per l'esattezza. Nome che viene dallo sterrato che sale sulla collina sino ai tre casolari che sono la casa, il laboratorio, il deposito attrezzi, le cantine e tutto quanto fa fattoria per la ventina di ragazze e ragazze che, da circa tre anni, ha occupato questa terra, trasformandola, per l'appunto, in un Bene Comune.

Sabato 7 e domenica 8 marzo, la fattoria era in festa. Festa grande, intendo. Perlomeno un centinaio di persone si era radunato per discutere di occupazioni, sostenibilità, alternative ad un capitalismo predatorio che ha portato all'umanità solo povertà, guerre e devastazioni, mercificando Beni Comuni e diritti dei popoli. Si discuteva, in altre parole, del Mondo Possibile annunciato dagli zapatisti e su come traghettarci l'umanità. Una atmosfera simile, dico la verità, l'avevo respirata solo nei caracoles del Chiapas. Sotto gli accoglienti pergolati di Mondeggi, a raccontare storie di resistenza e di costruzione di alternative ad una economia basata sull'accumulazione e non sulla solidarietà, c'erano portavoce di popoli indigeni e di comunità contadine provenienti da tutta l'Amercia Latina. Nelle tante assemblee che si sono tenute nella fattoria senza padroni, ho ascoltato rappresentanti del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional del Salvador, dei Sem Terra brasiliani, dei sindacati contadini d'Argentina e del Messico. E poi, ospite d'onore, c'era lei: "Bertita" Càceres, in rappresentanza del Copinh dell'Honduras, che, come non sarà fuggito ai lettori di FrontiereNews avevo intervistato pochi giorni prima all'Internazionale di Ferrara. Non mancava, naturalmente, anche una vasta rappresentanza dei movimenti sociali e dell'associazionismo italiano ed europeo, tra i quali citiamo solo Genuino Clandestino, perché è il movimento da cui provengono le ragazze ed i ragazzi di Mondeggi e che ha promosso questa esperienza. E qui apro una parentesi per rimarcare che questo appuntamento, pure ignorato dalla maggior parte dei media italiani, ha avuto un riscontro tale a livello internazionale che papa Francesco, ha formalmente invitato un portavoce della fattoria senza padroni all'incontro internazionale dei movimenti popolari, in programma a Roma dal 2 al 5 novembre, alla presenza del pontefice, sul tema: “Programmare il protagonismo dei lavoratori di tutto il mondo che agiscono nelle lotte per la terra, la casa e il lavoro”. Un invito inaspettato che ha sollevato un bel po' di discussioni, non ancora concluse, all'interno della mailing list di Genuino Clandestino.
Ma torniamo sulle colline dei Chianti. Tra una assemblea tematica e una plenaria, c'è il tempo di visitare la fattoria. Gil e Carlo, portavoce a tempo della comunità senza padroni, mi fanno vedere la cantina. Considerata la loro giovane età, chiedo loro dove hanno imparato a fare il vino. "Su Google" mi risponde Gil. Devo aver fatto una faccia… No, dai, sul serio. Dove avete imparato a fare il vino? "Siamo tutti, o quasi tutti, studenti di agraria. Qualcosa ne sapevamo quindi, ma ti confesso che passare dalla teoria alla pratica non è affatto facile, soprattutto nei campi. Quindi abbiamo sperimentato, abbiamo chiesto ai vicini che sono sempre solidali con noi e, non ultimo, abbiamo fatto anche delle ricerche in rete. Per questo dico: Google. Se ci siamo riusciti noi, possono riuscirci tutti!"
Arrivati a questo punto, bisogna raccontare la storia di Mondeggi che comincia con un fallimento, quello dell'azienda srl a partecipazione pubblica che una decina di anni fa chiuse i battenti lasciando all'allora amministrazione provinciale un buco di un milione e 200 mila euro. Per la grande tenuta di oltre 200 mila ettari, seguirono sette anni di abbandono totale. Viti, ulivi, tutte le coltivazioni… tutto andava alla malora. "Qui attorno vivono molte comunità di contadini - mi racconta Carlo - e sono stati loro i primi a gridare allo scandalo nel vedere abbandonare al degrado una terra ricca e generosa come questa". Nascono i primi comitati autorganizzati che si riuniscono in "Verso Mondeggi Bene Comune" e si legano a Genuino Clandestino. Si comincia a parlare di occupazione e autogestione.
A prescindere da una esperienza in Umbria, di poca durata e già conclusa, è la prima volta in Italia che si ragiona di come "recuperare una terra" in stile Sem Terra. A differenza del Sudamerica, dove l'occupazione di uno stabile scatena immediatamente la repressione poliziesca mentre sulle terre da coltivare il Governo tende a mediare (il che non significa che i movimenti contadini ottengono sempre la terra, naturalmente), nel nostro Paese e in Europa le cose funzionano al contrario. Anche perché questa di Mondeggi è la prima vera esperienza di occupazione di terre coltivabili in Italia. "E' più facile occupare un centro sociale che un campo - mi assicura Carlo -. La terra, ce ne siamo accorti con le nostre mani, è bassa e dura!"
Seguono un paio di anni di preparazione, in cui ottiene l'appoggio dei contadini del Chianti, ed in cui si organizzano iniziative come la raccolta popolare delle olive, il recupero degli oliveti abbandonati, l'avvio di orti comuni. Quindi, tre anni fa, Mondeggi viene occupata. Dapprincipio un solo casolare e un piccolo appezzamento, poi il recupero si estende ad altri edifici e agli attuali 40 ettari gestiti in comune e senza padroni. La terra, come ci ha spiegato Carlo, è bassa e dura. le ragazze e i ragazzi ci investono quello che anno e, soprattutto, danno l'anima a coltivare dapprincipio viti e ulivi per farne vino e olio. Un po' alla volta, arrivano le arnie per le api, gli orti, un piccolo gregge di capre e pecore, la birra artigianale, il laboratorio di piante officinali, la scuola contadina… "Quest'anno siamo riusciti ad acquistare pure un trattore" racconta felice Gil. "La Cia, il potente sindacato dei grandi coltivatori, ci attacca di continuo e fa pressione sulle amministrazioni per arrivare allo sgombero. Dicono che abbiamo rubato la terra, che gli facciamo concorrenza sleale. Ma sono bugie. Il nostro olio, il nostro vino, il nostro miele vengono venduti solo negli spazi sociali e nei mercati di acquisto solidale. Chi compra i nostri prodotti, lo fa non soltanto per acquistare del vino, dell'olio o del miele ma soprattutto per sostenere il nostro progetto. Noi vendiamo quello che la Cia non può vendere: una agricoltura sostenibile e senza padroni!"
Le fertili terre attorno alla fattoria però, fanno gola alla speculazione. La Città Metropolitana che dalla Provincia ha ereditato il podere di Mondeggi (e i suoi debiti), affitta saltuariamente grandi appezzamenti della collina alle aziende private. "Prendono la terra per una anno e, in questo breve tempo, la sfruttano per ricavarne più soldi possibile. Usano grandi macchine che devastano le piante e impoveriscono il suolo, consumano prodotti chimici e inquinano l'acqua. Qualcuno farà anche i soldi, ma così non si va da nessuna parte. Non è per questa strada che si costruisce un futuro sostenibile e aperto a tutti".
L'ultima notizia è ancora più preoccupante. Una multinazionale agricola ha acquistato un appezzamento di Mondeggi. Sono solo pochi ettari, ma pagati ad un prezzo esorbitante perché contempla il diritto di prelazione verso i terreni confinanti. E' evidente che hanno tutte le intenzioni di allargarsi anche verso le terre senza padrone.
Cosa farete se compreranno anche la vostra terra e vi intimeranno di andarvene?
"Non hai sentito quello che hanno detto all'assemblea i compagni dei Sem Terra, del Frente salvadoregno, del Copinh e la stessa Berta Càceres? La terra non si compra e non si vende. Si difende. Faremo quello è giusto fare. Resistere ad ogni costo".

Storia di una panchina

la panchia sistemata
Colore: rosso fuoco. Materiale: legno laccato. Interamente realizzata a mano. Modello artigianale e unico. Non privo di eleganza nella sua sobrietà. Vi ci potete accomodare - e gratuitamente! - se passate per via Carducci, nel cuore di Mestre. Ma non è questa la panchina di cui vogliamo raccontare la storia, ma di quella che c’era prima. Prima che il Brugnaro Luigi - lui si firma sempre col cognome davanti al nome che gli pare più corretto - sindaco di Venezia, la sradicasse a colpi di ruspa assieme a tutto il malcapitato plateatico che ci sorgeva attorno. E non senza aver prima chiamato a rapporto la stampa locale per mostrare come, con la ben quotata politica della ruspa, si possa risolvere il famoso “degrado” che umilia la città. La panchina, quella piallata intendiamo, non era per nulla diversa dalla altre, poche, panchine che si trovano a Mestre. Eppure, nei bui recessi della sua coscienza panchinara, costei covava una imperdonabile colpa: consentiva ai senza dimora di sedercisi sopra. Di notte poi, qualcuno di questi disperati ci si sdraiava pure sopra per riposare. E sognare magari di stare su un letto vero. Un crimine che le è costato l’inappellabile pena di morte per ruspa violenta. Una delle tante vittime innocenti della personalissima “lotta al degrado” che il Brugnaro Luigi sindaco sta portando avanti con passione che potremmo definire da tifo sportivo.

Non che abbia tanto altro cui pensare tutto il santo giorno, il Brugnaro Luigi sindaco. Piange il morto con ogni malcapitato ministro che si avventura in laguna per domandargli soldi per “salvare Venezia”, si fa sfanculare in diretta nelle trasmissioni radiofoniche, ha bannato la parola “ambiente” dal vocabolario municipale, cassato il parco della laguna nord che pure era già stato finanziato dalla Comunità Europea - pare che con i parchi non si facciano soldi e si scontentino i cacciatori che hanno grana -, litigato con le società remiere, insultato quel culattone di Elton John che sui social si era detto preoccupato per Venezia, armato i vigili di pistola, assicurato le compagnie di navigazione che possono far circolare le Grandi Navi dove vogliono come vogliono e quando vogliono, invitato i residenti di Venezia a trasferirsi tutti a Mestre, così si fa più spazio ai turisti che portano schei, twittato contro l’utero in affitto. Problema quest’ultimo che lo assilla più dei cambiamenti climatici ai quali non crede affatto. Ma il meglio di sé, come abbiamo detto, lo riserva tutto alla lotta al degrado. Degrado causato tutto da slavi, negri, nomadi, froci, clandestini, barboni, zecche dei centri sociali, vu cumprà, puttane, zingari, terroristi islamici, tossici ed extracomunitari non svizzeri. Gente, diciamolo pure, non pulitissima. C’erano una volta le docce comunali ma il Brugnaro Luigi Sindaco ha ruspato via pure quelle. Gente che dorme per strada. C’erano una volta associazioni, come la Caracol, che si occupavano dei senza casa offrendo loro un posto letto al caldo durante i rigidi mesi invernali. Ma il Brugnaro Luigi sindaco ha deciso che si poteva fare benissimo a meno di loro. Gente che ti piscia sul portone di casa. C’erano una volta i bagni pubblici. Ma anche questi hanno fatto la fine della nostra disgraziatissima panchina.
E così Mestre - che bella bella non è mai stata - è diventata una fogna a cielo aperto dove, vai a capire il perché, i fascisti di Casa Pound si sentono come a casa loro e cominciano a fare proselitismo. In più, spuntano come funghi i comitati di residenti sempre più incazzati ed intrattabili. E tutti ad invocare il Brugnaro Luigi sindaco, unico e vero paladino della lotta al degrado. Riporto a commento la pacata osservazione di una ragazza che, prima dell’era Brugnaro, passava le notti a portare bevande calde e coperte ai clochard assieme agli attivisti della Caracol. Si chiama Vittoria Scarpa ed è un tipetto ruspante che non te le manda a dire (io non saprei sintetizzare la situazione meglio di lei). “E se vi pisciano sotto casa non va bene. E se mettono i bagni no perché son brutti e attirano gente brutta. E se per strada non c'è nessuno abbiamo paura. E se c'è un bar aperto c'è casino e non dormiamo. E se non ci sono negozi la città muore. E se li comprano i cinesi siamo invasi. E gli spacciatori tunisini sono il problema ma la generazione di giovani che si fanno di tutto l'avete cresciuta voi. Ma più di tutto regna il dio degrado. Ma andate tutti affanculo, compratevi una casetta su Marte”.

Ma adesso che ha ruspato via tutto lo stato sociale, cosa resta da fare al Brugnaro Luigi sindaco per portare avanti la sua crociata contro il degrado? Se pensate che lui sia uno di quelli che si perdono d’animo, siete fuori strada. Zompa in consiglio comunale e scatena una bagarre degna di miglior causa fino a che non ottiene di far approvare due richieste formali al presidente del consiglio. Una per chiedere il ritorno dei marò e l’altra per invocare “più poteri” e risolvere così il problema del degrado a modo suo. Quale sia questo modo suo, non ce lo ha spiegato. A dir la verità, non glielo ho neppure chiesto perché temo la risposta.

Questa signori, è l’aria che tira a Venezia. “La città più sicura del mondo - si vanta sempre il Brugnaro Luigi sindaco -. Se solo uno di quei musulmani prova a gridare Allah si trova sparato nel giro di due secondi”. Con i militari col mitra spianato che marciano per le calli, a parer suo, i veneziani dovrebbero respirare sicurezza a pieni polmoni Attenzione solo a non farvi beccare con l’abbonamento scaduto nel bus che va a Mestre, perché il servizio di controllo è stato appaltato a guardie private che ti chiedono il biglietto armate di pistole. Una spesa che bisognava fare per la sicurezza. Ma per un orinatoio a muro non ci son soldi. E così a Mestre tira un’aria che sa di piscio. Neanche tanto diversa, alla fin fine, da quella che spazza Verona con Tosi Flavio sindaco, dove ti becchi 500 euro di multa solo se ti azzardi a fare la carità ad un disperato. O da quella che ammorba Padova con quell’altro Bitonci Massimo sindaco, che ha inventato addirittura la panchina anti degrado dotata di una sbarra centrale ti impedisce di abbracciare la morosa anche se sei eterosessuale! E ci si è pure fatto immortalare seduto sopra con la faccia soddisfatta accanto al suo degno assessore! Oh… e parliamo di persone che la domenica vanno pure in chiesa e si sistemano in prima fila per sentire le prediche sulla carità cristiana, eh?

Siete schifati? Posso capirlo ma, per favore, continuate a leggere qualche altra riga perché la storia continua con quell’altra panchina. Quella cui accennavamo in apertura. Quella colore del fuoco. L’hanno sistemata, esattamente dove sorgeva la panchina originale giustiziata dalla ruspa, i ragazzi dei centri sociali, che poi hanno portato in corteo il manichino di un Cristo vestito da clochard sino alla sede dell’assessorato ai servizi sociali per chiedere che ci sta a fare un assessorato ai servizi sociali se i servizi sociali non ci sono più. Non sono stati ricevuti perché loro sono le zecche dei centri sociali. Ma la panchina che hanno costruito, c’è da dire, è più bella di quella che c’era prima. Hanno sistemato sopra addirittura una piccola tettoia per riparare dalla pioggia il malcapitato costretto a dormirci sopra. E se il Comune pialla anche questa, ne rimetteranno subito un’altra, assicurano. E vediamo chi si stufa prima. #noisamogentechenonmollamai è l’hastag di battaglia.

Come ha reagito l’amministrazione? La risposta è stata affidata ad un tweet che, se non lo avesse mandato l’assessore alla Sicurezza, Giorgio d’Este, ma uno dei tanti sparasentenze da bar Sport farebbe solo che pietà ma invece fa anche piangere. “Ecco!!! Questa gente che tanto si schiera per salvaguardare soggetti tossici e disadattati intende aiutarli rimettendo la panchina. Ma perché, mi chiedo, non li aiutano veramente offrendogli un posto a casa loro?” Una argomentazione, questa del “perché non ve li portate a casa vostra”, magari non eccessivamente elaborata nei contenuti ma che la dice tutta su cosa intenda per “politica” - la “cosa di tutti” - la giunta del Brugnaro Luigi sindaco che governa la mia città. A questo punto, avrete intuito perché la puzza di piscio che si sente in laguna non è dovuta solo ai famosi “soggetti tossici e disadattati” costretti a svuotarsi le vesciche sui portoni delle case.

Ma intanto la panchina è sempre là. Un pugno rosso fuoco contro il grigiore di una Mestre che naufraga nella sporcizia, nell’abbandono e nella vergogna. E attorno a lei ci sono ancora loro, le ragazze e i ragazzi del Loco, del Morion e del Rivolta, pronti a fare quadrato, a ricostruire quello che altri distruggono, a sentire tutte le ingiustizie fatte al mondo come fossero fatte a loro, a denunciare un degrado che sta tutto nell’anima di chi lo invoca a pretesto. A lottare per quella libertà e quella democrazia per cui lottavano i loro nonni partigiani. A resistere, a tener duro, a rompere i coglioni.

La letteratura migrante come bene comune

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A Ferrara si apre il 15esimo festival di scrittura migrante

La letteratura come grimaldello per scardinare le serrature mentali che si annidano su concetti vuoti di significato come “clandestino” o “sicurezza”. La letteratura come dialogo, come incontro tra culture, come reciproco arricchimento di chi scrive e chi legge. La letteratura come mezzo per restituire alle parole quella dignità che gli viene negata da tutte le semplificazioni xenofobe che scavano dentro le nostre paure. La letteratura, infine, come bene comune. Ed è proprio quest’ultimo il sottotitolo del 15esimo convegno sul tema “Non solo acqua, non solo aria” intitolato a Franco Argento che si svolgerà nel ferrarese da giovedì 14 a sabato 16 aprile. Una “tre giorni” fitta di appuntamenti dedicata, come di consueto, alla letteratura migrante. L’appuntamento è organizzato dal Cies (centro informazioni ed educazione allo sviluppo) di Ferrara, in collaborazione con altre realtà che si occupano di migranti e di diritti come Cittadini del Mondo, Quadrifoglio, PortoAmico, e gode dei patrocini istituzionali di Comune, Provincia e Regione.
Come è oramai tradizione, il primo appuntamento del festival, quello di giovedì, si svolgerà a Portomaggiore, teatro Smeraldo alle ore 9, per poi trasferirsi al centro Il Quadrifoglio, Pontelagoscuro, Ferrara. Tra le scrittrici e gli scrittori che interverranno, segnaliamo Melita Richter, Tahar Lamri, Nader Ghazvinizadeh, Silvestra Sbarbaro, Sandro Abruzzese, Barbara Diolaiti, Ibrahim Kane Annour ed Alessandro Ghebreigziabiher.

Per il programma dettagliato potete visitare questa pagina

Negli incontri saranno coinvolti, come è oramai consuetudine, le ragazze ed i ragazzi dei principali istituti scolastici di Ferrara e Provincia.
Da sottolineare come Portomaggiore, il Comune dove si aprirà il festival di letteratura migrante, è una delle aree italiane a più alta densità di migranti. Una scelta non casuale. Cosa c’è di più migrante della letteratura?

Amministratori locali sempre più nel mirino del crimine. Ne parliamo con Gianfranco Bettin, uno di quelli sotto tiro

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Gli amministratori pubblici non sono tutti uguali. Ce ne sono di capaci e incapaci. Attivi e indolenti. Corruttibili e no. Ignavi, complici, o concretamente e direttamente impegnati contro la criminalità di ogni tipo e livello. Al punto da “meritarsi” attacchi, minacce, intimidazioni, violenze da parte di quest’ultima. E’ quanto emerge da due indagini recenti. E’ di qualche giorno fa il Rapporto della Commissione straordinaria d’inchiesta del Senato sul “fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali”. Sono centinaia gli atti contro gli amministratori locali che si perpetrano ogni anno. Tra 2013 e 2014 sono stati oltre 1200, con una media di 2,6 denunce al giorno. Il fenomeno interessa per il 35% sindaci, per il 17% assessori, per il 17% consiglieri comunali e per il resto dirigenti, funzionari e dipendenti degli enti locali. Si tratta di “un fenomeno poco conosciuto” scrive la Commissione d’inchiesta e che dovrebbe esserlo molto di più, il cui fine è il “condizionamento dell’attività amministrativa” (per influire su scelte urbanistiche e ambientali, interferire su appalti e servizi erogati, reagire a iniziative contro il crimine e altro).
Anche “Avviso Pubblico”, l’associazione tra amministrazioni pubbliche che promuovono la legalità e la lotta alle mafie, registra il preoccupante fenomeno. L’ultimo Rapporto, del 2014, registra un aumento del 66% rispetto al 2010 degli atti intimidatori. L’80% avviene al sud ma anche al nord ormai il problema si pone in modo inquietante. Nel Veneto sono 9 i casi censiti. Di questo quadro allarmante parliamo con Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore, attivista politico e ambientalista ma anche più volte amministratore pubblico a Venezia con deleghe alle politiche sociali e all’ambiente, uno degli amministratori del Nord più sotto attacco, per anni sotto scorta, definito da “Avviso Pubblico” nel suo ultimo rapporto “un amministratore storicamente impegnato nella difesa dell’ambiente e contro la criminalità”.

Sono dati molto preoccupanti, no? Anche per la “risalita” al Nord e nel nostro Veneto di questa escalation di attacchi e intimidazioni.
Secondo me, il dato è ancora sottostimato. Credo che si basi su ciò che viene segnalato da interrogazioni parlamentari. Ma molto sfugge. Mi baso sulla mia esperienza: dagli atti citati nei report che mi riguardano mancano diversi episodi: le minacce contro mia madre, scritte intimidatorie apparse in varie parti della città, diverse intimidazioni a domicilio. Certo, quelle registrate bastano a farmi entrare in classifica, diciamo così, per sdrammatizzare. In realtà, voglio dire che molto probabilmente il fenomeno generale è più esteso e, dunque, più preoccupante.



A cosa pensi sia dovuto?
Intanto al fatto che molti amministratori locali fanno il loro dovere. A fronte di qualcuno che, qualità del lavoro amministrativo a parte, si comporta da disonesto, ce ne sono moltissimi che fanno il loro dovere anche rischiando. Bisognerebbe rammentarlo a chi blatera contro la politica e gli amministratori in generale. Anche a Venezia. Poi c’è il fatto che, oggi, gli amministratori sono in prima linea comunque, sul fronte dei bisogni dei cittadini, con scelte difficili e cruciali da assumere, con interessi potenti da contrastare. Lo Stato li lascia spesso soli, togliendo risorse e poteri, e facendone dei capri espiatori (pensiamo al feroce Patto di stabilità che devasta i bilanci comunali o alle regole farraginose che imbrigliano l’azione amministrativa e la subordinano a pareri e poteri sovradeterminati, spesso opachi, sempre autoreferenziali).

Ma c’entra anche la crescita dei poteri criminali, no? La loro risalita al Nord.
Certo. Sia quelli “in guanti bianchi”, e qui a Venezia e nel Veneto, ne abbiamo avuto un esempio lampante con le vicende del Mose e delle truffe sulle bonifiche a Marghera (il capitolo più infame di quella storia infame), sia quelli “senza guanti”, anche se spesso tendenti a mimetizzarsi. Qui da noi, ad esempio, la gang del Tronchetto, e i suoi possibili ammanicamenti mafiosi, o quella degli appalti, con sicuri legami mafiosi, come nel settore dello smaltimento rifiuti e terre di scavo, o del riciclaggio nell’edilizia, nel turismo e nel commercio. Oltre, ovviamente, ai racket del narcotraffico e dello spaccio di strada, della prostituzione e perfino dello sfruttamento dei mendicanti e alle più ovvie rapine, scippi, furti, prepotenze varie.

Tu hai avuto e hai a che fare un po’ con tutti costoro. E’ inevitabile?
E’ inevitabile se entri a fondo nelle dinamiche della città, se non ti limiti ad agire in superficie. Se non chiudi gli occhi o non giri lo sguardo da un’altra parte. Un amministratore locale non lo deve fare. ma con questi ambienti loschi mi sono scontrato anche prima e dopo aver avuto ruoli amministrativi e istituzionali. Anche da semplice cittadino o da attivista ci si può impegnare contro questi nemici della sicurezza, della legalità e della convivenza civile. Tra costoro, beninteso, ci metto anche fascisti e razzisti.

Te ne sei mai pentito?
No.

Tempo fa, dopo qualche ennesimo attacco, hai dichiarato di non volere la scorta. Perché?
L’ho avuta per diversi anni, è pesante. In Italia, poi, se proprio non ti ammazzano (e anche in quel caso…), dopo il primo momento di solidarietà, si comincia a malignare, a guardare male gli stessi agenti che ti tutelano. Mi era diventato insopportabile, per il rispetto e la gratitudine che provavo per il loro lavoro. Piuttosto, mi chiedo se vale la pena di rischiare, di mettere in pericolo te stesso e chi ti sta vicino, in un paese di ciarlatani maligni capaci di dire che perfino Falcone l’attentato all’Addaura se lo era fatto da solo, o che Saviano è un mitomane, e via infamando. Non sto parlando dei fuori di testa che impestano il web, o dei calunniatori da mouse, o dei buontemponi che buttano tutto in vacca, disgustosi comunque. Sto parlando di chi fa finta di non vedere il tuo lavoro, il tuo rischio, e sparge veleni e allusioni e quando può ti calunnia. Accade a tutti gli amministratori esposti al pericolo, oggetto di campagne di delegittimazione.

Come mai?
Per interesse, da parte dei nemici politici (o dei loro nemici criminali o malavitosi). O perché essi sono la prova vivente dell’ignavia e a volte del fallimento di chi è bravo solo a cianciare e quindi vorrebbe denigrarli, ucciderne immagine e reputazione. Lo ha ben documentato proprio Roberto Saviano, ma è esperienza corrente di chiunque si trovi esposto da un lato agli attacchi dei criminali o dei fuori di testa e dall’altro all’azione denigratoria di questi cialtroni. Scarabei stercorari, senza la bellezza e l’ingegno di quegli ottimi insetti (pure buoni astronomi, si muovono seguendo la traccia in cielo della Via Lattea, lo sapevi?). Di essi - degli umani stercorari, intendo - potremmo dimenticarcene, se non fosse che il loro sporco lavorìo mette ancor più in difficoltà chi lavora onestamente nelle istituzioni e sul territorio e coerentemente contrasta malavita e crimine organizzato così come i poteri forti e loschi.

Insomma, vale la pena.
Non lo so, se ne vale la pena. So che è giusto.

Italia e Grecia condannate per le espulsioni illegali. In memoria di Zaher…

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Zaher non doveva morire. Il suo lungo viaggio verso l'Europa avrebbe dovuto concludersi sulla banchina del porto di Venezia. Zaher non avrebbe dovuto nascondersi sotto quel Tir che lo ha schiacciato, per cercare di superare il controllo della polizia di frontiera italiana.
Zaher avrebbe dovuto uscire a testa alta dalla stiva della nave dove si era imbarcato di nascosto a Patrasso. Ad accoglierlo, avrebbero dovuto esserci operatori sociali e sanitari e non poliziotti pronti a rimandarlo indietro, affidandolo agli stessi aguzzini da cui cercava di scappare.
Era solo un bambino, Zaher. Dal suo paese nelle montagne d'Afghanistan aveva portato con sé solo il suo quaderno di poesie e tanta voglia di vivere.
L'11 dicembre del 2008, Zaher è stato ucciso da una frontiera che non doveva esistere e da pratiche di respingimento non soltanto inumane ma anche illegali, non soltanto tollerate ma anche incoraggiate dalle autorità ministeriali.
Questo è quanto accusavano gli attivisti veneziani che si erano mobilitati in una rete costituitasi attorno al Progetto Meltig Pot. E questo è anche quanto oggi ha stabilito la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Sei anni ci sono voluti - questi sono purtroppo i lunghi tempi della "giustizia" - ma alla fine il ricorso presentato dai legali come Fulvio Vassallo Paleologo, Alessandra Ballarini e Luca Mandro, è stato accolto. Con una sentenza datata 21 ottobre 2014, la Corte ha condannato la Grecia per violazione dell’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e l’Italia per violazione dell’articolo 4, protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive), nonché per violazione dell’articolo 3, “perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese”. L’Italia è stata anche condannata per la violazione dell’articolo 13 per l’assenza di procedure d’asilo o di altre vie di ricorso nei porti dell’Adriatico.
Quanto denunciavano gli attivisti sulla sistematica e istituzionalizzata violazione dei diritti umani dei richiedenti asilo nei porti di Venezia, Ancona, Bari è ora sostenuto anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.


"D'ora in poi questi respingimenti dovranno essere sospesi - spiega l'attivista Alessandra Sciurba che della rete veneziana è stata l'anima e la principale voce - perché, dopo anni di denunce inascoltate, adesso quanto abbiamo sempre condannato come violazioni dei diritti fondamentali ha avuto un riconoscimento ufficiale da cui nessuna autorità italiana potrà più prescindere".
Una lunga battaglia per il diritto d'asilo, questa condotta da Alessandra e da tanti altri attivisti veneziani, che ha avuto i contorni dell'avventura. Un ricorso alla Corte europea infatti funziona solo se è la vittima a fare appello attraverso una procura firmate.
Così, neppure un anno dopo la morte di Zaher, Alessadra guida una carovana della rete veneziana in Grecia in cerca di storie di migranti respinti dall'Italia disposti a sottoscrivere il ricorso.
"Siamo arrivati a Patrasso dopo 37 ore di viaggio in nave - racconterà -.
Aiutati da Kinisi, un’associazione di attivisti del luogo, incontriamo subito migliaia di afghani relegati in un campo informale ai margini della città che sarà dato alle fiamme dalla polizia pochi mesi dopo. Ci sono anche dei sudanesi e degli eritrei che hanno scelto la strada dell’Est per sfuggire alle torture libiche e al cimitero del Mediterraneo. Ma muoversi a Patrasso è difficile, siamo seguiti a vista dalla polizia greca, fermati per ore con l’assurda accusa di traffico internazionale di stupefacenti solo perché parlavamo coi migranti".
La carovana della rete veneziana, raccoglie centinaia di denunce e di segnalazioni ma solo 35 sono complete della documentazione necessaria per il ricorso alla Corte di Strasburgo. Quattro di questi ricorsi sono stati accolti dal tribunale europeo e hanno avuto come conseguenza la pesante condanna di Italia e Grecia di cui abbiamo riferito in apertura.
Da sottolineare che la Corte ne ha accolto 4 su 35 non perché gli altri 31 non fossero considerati validi ma perché queste 31 persone in questi cinque anni sono stati espulsi dalla Grecia illegalmente - possiamo ben scriverlo ora - e rimandati nei Paesi d'origine in cui o non sono sopravvissuti o comunque se ne sono perse le tracce. Questo nonostante la stessa Corte avesse intimato alla Grecia di sospendere qualsiasi procedura di espulsione in attesa del verdetto definitivo.
Amarezza per le ingiustizie subite da profughi innocenti, buona parte di loro era minorenne al momento del ricorso, e gioia per una battaglia vinta si mescolano nel racconto di Alessandra. "Adesso che la Corte ci ha dato ragione assumono un senso tutte le lotte fatte: i lunghi viaggi, le minacce subite, le manifestazioni ai porti, le cariche ingiustificate della polizia, i dossier, le denunce.
Non hanno avuto senso, quelle no, le tantissime morti di tutti quei migranti che stavano esercitando un diritto e sono stati uccisi, come Zaher, dalla frontiera italiana dell’Adriatico. Questa piccola enorme vittoria è per tutti loro".

Mose e Grandi Navi, Venezia si ribella alla devastazione ambientale dell’affarismo

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Sabato a Venezia non sarà solo la giornata contro le Grandi Navi. Sarà anche la giornata in cui una città che ha visto finire in manette il suo primo cittadino con l’accusa di un finanziamento illecito proveniente dal Consorzio Venezia Nuova scenderà in piazza per rivendicare la sua dignità. La battaglia contro le grandi e devastanti navi che ad ogni passaggio maciullano la laguna e scardinano le fondamenta ancora poggiate sulle palafitte piantate dai dogi, inquinando come il passaggio di 24 mila auto, è la stessa identica battaglia che i veneziani hanno combattuto - e perso - contro il Mose. E’ la stessa battaglia perché lo stesso è il nemico: quel sistema politico e affaristico, trasversale a tutti i partiti, che fa capo alla concessionaria unica delle cosiddette opere di “salvaguardia”. Il Consorzio Venezia Nuova, voluto da Romano Prodi e tenuto a battesimo da Silvio Berlusconi. Le stesse aziende che stanno costruendo quella devastazione ambientale che altro non è il sistema a paratie mobili Mose e che hanno avuto i vertici inquisiti e imprigionati per reati di stampo mafioso, sono le stesse che si propongono oggi per realizzare il costosissimo scavo del canal Contorta come “alternativa” al passaggio delle Grandi navi davanti a piazza San Marco. Progetto già bocciato dalla commissione Via ma le cui conclusioni sono state tenute segrete per molti mesi.
Un film già visto ai tempi della battaglia contro il Mose. pareri segreti su progetti segreti. Sei miliardi di euro di denaro pubblico spesi senza trasparenza alcune e senza controllo alcuno a vantaggio di un gruppo di ditte privilegiate scelte dal Consorzio senza bisogno di gare d’appalto. Denaro speso non solo per trasformare quella che era l’antica laguna di Venezia in un braccio di mare aperto, come testimoniano le sempre più frequenti “acque alte”, ma che ha drogato la politica, corrompendo a tutti i livelli, dal Comune alla Regione, dal Magistrato alle Acque alla Guardia di Finanza, dai vertici aziendali alla Corte dei Conti. Enti che avrebbero dovuto essere garanti di democrazia sono stati trasformati in logge massoniche dove tutto era finalizzato al proseguimento di una Grande Opera sulla cui utilità ai fini della salvaguardia nessuno che abbia la coscienza pulita e qualche nozione di idraulica può seriamente credere.



“La lotta per denunciare quell’intreccio malavitoso che solo oggi la magistratura ha accertato ci è costata cara - ha commentato Tommaso Cacciari del Laboratorio Morion di Venezia -. Solo l’occupazione dell’ufficio di quel magistrato delle acque, Maria Giovanna Piva, che ora è agli arresti ci è valsa una condanna a otto anni. Ma se è con soddisfazione che apprendiamo che finalmente sta venendo a galla la verità, vogliamo mettere in guardia tutti che la questione non può essere sbrigativamente liquidata con l’arresto di qualche corrotto cui addossare tutte le colpe. E’ il sistema della concessionaria unica che va cambiato. Da anni diciamo che nel Veneto la mafia si chiama Consorzio Venezia Nuova, da anni diciamo che questi signori ora finito agli arresti hanno scippato la città di fiumi di denaro che dovevano servire alla tutela dell’ambiente, della città ed a realizzare case per i residenti costretti all’esilio in terraferma. Soldi che sono finiti non solo a pagare stipendi milionari a gente come Chisso, Galan e ai loro accoliti, ma anche a devastare la laguna”.
Un film, dicevamo, già visto col Mose e che nessuno in città vuole rivedere come “soluzione” al problema delle Grandi Navi.
E così, in una città ancora sotto shock per la retata in stile “Gli anni ruggenti di Al Capone”, il comitato No Grandi Navi ha lanciato l’ultimo appello alla mobilitazione. La prossima settimana si riunirà il Comitatone ministeriale (arrestati a parte) che avrà il compito di decidere sulla questione. Siamo quindi all’ultima chiamata. E’ indispensabile che la città dia un segnale forte, spiegano gli ambientalisti. L’appuntamento è per sabato alle 13 a piazzale Roma. Sarà una manifestazione pacifica e colorata. Al di là delle preoccupazione del sindaco Giorgio Orsoni che proprio il giorno prima di essere arrestato ha dichiarato che “non saranno tollerate illegalità”. Al di là di quanto si augurano le compagnie di crociera che anche oggi hanno comperato intere pagine di giornali locali per scrivere “Ci risiamo. No alla violenza” sopra alla foto di una recente manifestazione in cui gli attivisti cercavano riparo dalle manganellate della polizia dietro a delle paperelle di gomma.
Vien da chiedersi da dove venga la vera violenza. Quella di chi difende la sua città o di chi pretende di devastare impunemente l’ambiente forte del denaro proveniente dalla corruzione?

“Libertà di movimento e chiusura dei Cie”, approvata la Carta di Lampedusa

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Strana gente quella che gira in questi giorni per Lampedusa. Salta subito all’occhio che non si tratta dei soliti turisti. Un po’ perché siamo fuori stagione e batte un freddo bestia, un po’ perché non vestono firmato, non scarrozzano valigie di marca ma portano uno zaino sulle spalle dove hanno infilato qualche straccio di ricambio tra pacchi di libri, quaderni e computer portatili. E poi se ne vanno a zonzo per l’isola a piedi, nonostante il vento di Libeccio abbia scaricato sull’isola un acquazzone torrenziale che va avanti da tre giorni. E ancora... i discorsi che fanno... No. Non sono i soliti turisti quelli che girano in questi giorni per le strade di Lampedusa.


Sono tanti però. Almeno trecento, forse trecento e cinquanta. E ognuno di loro è un’isola nel variegato (e qualche volta pure rissoso) arcipelago associativo che spazia dall’antirazzismo all’accoglienza passando per i diritti umani. Sono arrivati a Lampedusa dopo viaggi con tre o anche quattro scali aerei. Alcuni vengono dall’Olanda, dall’Inghilterra o dalla Germania, come gli attivisti di “Lampedusa in Hamburg”. Altri anche dal nordafrica. La maggior parte però, per una questione di vicinanza, sono italiani.
Tutti hanno accolto l’appello lanciato dal Progetto Melting Pot appena dopo la tragedia del 3 ottobre di ritrovarsi a Lampedusa da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio per disegnare assieme le “frontiere” di una Europa senza frontiere. Una Europa che garantisca il diritto d’asilo ai profughi e il diritto di tutti alla libera circolazione.
Perché proprio a Lampedusa? Lo ha spiegato bene Giusi Nicolini. Lampedusa, ha commentato la sindaca intervenendo all’assemblea, è un perfetto paradigma di come l’attuale politica sulle migrazione violi non solo i diritti dei richiedenti asilo ma anche delle popolazione costrette a vivere l’eterna emergenza delle aree di confine. “Non c’è una sola Lampedusa in Europa e neanche nel mondo. Sono tante le Lampeduse nel mare Mediterraneo, così come tra l’Australia e le Filippine. Tutte queste Lampeduse vogliono che il diritto di asilo diventi effettivo, che la tratta venga combattuta da un modo diverso di affrontare le politiche migratorie. Tulle le lampeduse del mondo chiedono di rovesciare un linguaggio politico che continua ad essere imprigionato dentro le gabbie sicurtarie. Non ci sarebbe bisogno di Mare Nostrum se ci fossero forme diverse e più agili per concedere il diritto di asilo”.
Nelle sala dell’aeroporto di Lampedusa, la sola in tutta l’isola abbastanza ampia per provare a contenere tutti i partecipanti, le assemblee si sono susseguite dalla mattina presto a notte fonda. Sono stati, diciamocelo pure, tre giorni duri anche perché non è stato affatto facile tenere insieme realtà vicine nei principi ma lontane per provenienza, non solo geografica.
Sabato sera però, la Carta di Lampedusa è diventata una realtà. La sua versione definitiva, frutto di un percorso partecipato lungo circa tre mesi e costruito via web attorno ad un documento wiki di scrittura condivisa, la potete scaricare dal sito meltingpot.it.
“E’ importante sottolineare che la stesura della Carta non esaurisce il nostro cammino, anzi - ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot, appena dopo la chiusura definitiva del documento - E’ stato un lavoro collettivo ma eccezionale. Un testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica. Il frutto di uno sforzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre in tanti e diversi, a partire da quelle per l’immediata chiusura dei pochi centri di detenzione ancora attivi in Italia. Ma anche un periodo in cui affrontare l’Europa e le politiche che ha costruito nel Mediterraneo. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere”.

A Lampedusa per riscrivere la geografia dei diritti

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Nessuno se l’è dimenticato, quel 3 ottobre. A poche miglia dalla spiaggia di Lampedusa affogavano 368 persone. Uomini, donne e bambini in fuga da guerre, fame e violenze. Uomini, donne e bambini che cercavano solo un futuro e che hanno trovato una frontiera. La frontiera di guerra di una Europa militarizzata che, anche dopo la tragedia, continua ad investire miliardi di euro in politiche di esclusione forzata a Lampedusa come a Melilla, con il muro di Evros, i pattugliamenti di Frontex, fino ad invadere la stessa sovranità di Stati terzi, esternalizzando sino al cuore del deserto libico i suoi dispositivi di controllo.
Le frontiere servono a dividere e non “pesano” mai solo da una parte. Anche chi è nato dalla parte “giusta” del confine viene giornalmente umiliato da una politica oramai sempre più lontana da quell’idea di democrazia diretta e partecipata che stava alla base della nostra Costituzione. L’esclusione di categorie sempre più ampie di nuovi poveri, la mercificazione dei diritti del lavoro e della cittadinanza colpiscono i migranti in fuga come colpiscono chi in tasca ha un passaporto europeo in piena regola.
Non è questa l’Europa che vogliamo. Non è questo il futuro che sogniamo.



Ed è qui che nasce l’appello lanciato da Melting Pot a realizzare insieme, come leggiamo nel sito meltingpot.org, “un patto costituente tra molti e diversi, un processo collettivo, uno spazio comune che sarà responsabilità di ognuno preservare, ciascuno con le sue pratiche e le sue modalità, un’occasione per iniziare a capire collettivamente come costruire una geografia del cambiamento che vada oltre i confini imposti dall’Europa per trasformare questo manifesto in realtà”.
Sono centinaia le associazioni, italiane ma anche del resto d’Europa e dal nord Africa, che hanno già aderito all’iniziativa. Ci troveremo tutti insieme a Lampedusa da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio per scrivere quella che è stata chiamata la Carta di Lampedusa e “contrapporre a questo stato di cose un altro diritto, scritto dal basso. Un diritto alla vita che metta al primo posto le persone, la loro dignità, i loro desideri e le loro speranze, un diritto che nessuna istituzione oggi riesce a garantire, un diritto da difendere e conquistare, un diritto di tutti e per tutti”.
A questa iniziativa, associazioni, movimenti, cittadini - la lista di chi ha aderito è davvero troppo lunga per essere riportata ed inoltre è in continuo aggiornamento, ma la potete trovare facilmente nel sito di Melting Pot come nelle pagine di tutte le realtà che si sono mobilitando - stanno già lavorando sin dal giorno dopo la tragedia. Per mantenere il progetto nei binari della democrazia e della partecipazione, è stata usata una piattaforma wiki che permette a tutti di contribuire alla stesura dei documenti finali. Inoltre, sono già stati svolti svariati incontri, molti dei quali in web conference. Segnaliamo solo il prossimo appuntamento che si svolgerà materialmente a Palermo, mercoledì 18 a Diaria Didattica, via Venezia, alle ore 19.
Anche il programma della “tre giorni” di Lampedusa è in fase di definizione. Per ulteriori informazioni vi invito a raggiungerci sulla pagina Facebook “La Carta di Lampedusa”.
Nessuna pretesa, sottolineano gli organizzatori, di imporre all’Europa un repentino cambiamento di rotta sulla politica migratoria,. L’appuntamento di Lampedusa deve essere inteso come un’occasione di “ribaltare i linguaggi e gli istituti imposti dalle politiche del confine” e gettare le basi di un “manifesto collettivo, un nuovo diritto che nasce dal basso”.
Un punto di partenza, dunque. Un trampolino per riscrivere insieme la “geografia” dell’Europa. E con essa la mappa dei nostri diritti che sono i diritti di tutti.

Venezia si ribella alle Grandi Navi

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Li aspettavano su barchini, su piccole barche a vela o sopra la tipiche barche a remi della laguna. Ed invece gli attivisti del comitato Contro Le Grandi Navi si sono presentati in costume da bagno. Tutti a mollo per protestare contro lo scempio quotidianamente perpetrato da queste specie di giganteschi villaggi turistici galleggianti.
Carabinieri, polizia, guardi di finanza e capitaneria di porto avevano mobilitato nel canale della Giudecca tutti i mezzi delle grandi occasioni: lance, motoscafi d’altura, elicotteri e scooter d’acqua. Tutto inutile contro la cinquantina di attivisti che si è tuffata in un’acqua non propriamente limpidissima per impedire col proprio corpo il passaggio delle Grandi Navi. E hanno avuto battaglia vinta.
In lontananza, verso la Stazione Marittima, abbiamo visto le navi il cui pescaggio lo consentiva deviare verso il canale dei Petroli e rassegnarsi a non offrire ai loro passeggeri il promesso brivido di sfiorare piazza San Marco e di ammirare la più bella - e la più fragile - città del mondo da una altezza paragonabile a quella del suo celebre campanile. Altre navi, i veri grattacieli del mare il cui pescaggio non consente deviazioni, sono dovute rimanere tristemente ancorate alla banchina.



“Una vittoria di Venezia e dei suoi cittadini - hanno spiegato in una nota i portavoce del comitato -. L’arroganza delle compagnie crocieristiche che, proprio in un momento in cui si sta discutendo delle possibili soluzioni al problema di questa loro presenza insostenibile per la laguna, hanno cercato di far arrivare ben 12 Grandi Navi in un solo giorno, ha avuta la risposta che si meritava. In questa giornata di lotta abbiamo chiarito tanto al Governo quanto alla capitaneria di porto, all’autorità portuale e alle Compagnie di navigazione che l’unica soluzione per noi è una sola: fuori le Grandi Navi dalla laguna. Non vogliamo altri canali, non vogliamo porti alternativi in un’altra zona di un ecosistema così delicato che vorrebbero dire altre Grandi Opere costose e devastanti”.
La giornata di lotta era cominciata la mattina presto con l’occupazione del terminal di ricevimento dei passeggeri all’aeroporto Marco Polo. Un centinaio di attivisti ha “sfrattato” l’ufficio delle Compagnie, smontandolo pezzo per pezzo per spostarlo all’esterno.
Nel pomeriggio la battaglia navale: le grosse lance e i grandi mezzi delle forze dell’ordine non hanno potuto far nulla contro il gruppo di nuotatori in mutande da bagno.
Ma l’arrivo dell’imponente flotta crocieristica che neanche ai tempi della guerra con Genova se ne ricordava l’uguale (30 mila persone a bordo. Una ogni due veneziani), aveva scatenato polemiche e prese di posizione a vari livelli. Ricordiamo solo la pagina del Corriere acquistata da Adriano Celentano per denunciare, parole sue, “l’eterno funerale della bellezza” causato dal moto ondoso e dall’inquinamento di queste torri galleggianti i cui camini nemmeno all’ancora smettono di fumare.
Proprio l’inquinamento atmosferico, al pari della distruzione dei fondali lagunari, è tra le cause che hanno scatenato la protesta dei veneziani, ai quali, ricordiamolo, non viene in tasca nessun introito da questa insostenibile presenza navale, in quanto sono turisti da “tutto compreso a bordo”. Di una Venezia che non conosceranno, si accontentano di portare a casa solo la visione fugace di un passaggio davanti a piazza San Marco.
Una Grande Nave inquina come 14
mila automobili. Se moltiplichiamo per 12 e dividiamo per il numero, ahimè sempre più esiguo di isolani, si calcola che oggi hanno circolato per Venezia tre auto per residente, bambini e neonati compresi. Davvero un bel record per la città per antonomasia “senza auto”!
Ma per la Venezia che ha saputo reagire alla provocazione delle multinazionali turistiche oggi è stata comunque una giornata di festa. Il blocco del canale della Giudecca è stata la risposta che meritava la sfrontatezza di voler far arrivare il laguna 12 Grandi Navi in un giorno, nel silenzio della Capitaneria di Porto, la complicità dell’autorità portuale e dall’inerzia del governo e dei ministeri competenti. Anche il Comune, se si esclude la ferma presa di posizione dell’assessore all’Ambiente, Gianfranco Bettin, e qualche altra svogliata presa di posizione, più vicina alla preoccupazione che alla denuncia vera e propria, preferisce adagiarsi sulle possibili soluzioni in discussione alla commissione ministeriale. Soluzioni che, va detto, in alcuni casi prevedono lo scavo di altri canali e la realizzazione di altre Grandi Opere che sarebbero un rimedio peggiore del male.
Ma per adesso, sul fronte istituzionale, solo l’assessorato all’Ambiente ha preso una netta posizione contro questo insostenibile via vai di ciminiere marine. Vista inascoltata la sua richiesta al ministro per l’ambiente, Andrea Orlando, di applicare sin da subito un numero chiuso, Bettin ha chiesto la collaborazione di Arpav per monitorare accuratamente l’eccezionale situazione che si creerà con il traffico autostradale delle 12 Grandi Navi. “Cercheremo di misurare in particolare il rumore, le polveri sottili e gli ossidi di azoto e di osservare gli spostamenti di masse d’acqua e le variazioni di marea che provocheranno queste navi - ha dichiarato l’assessore veneziano -. Si tratterà, in un certo senso, di un esperimento enorme sulla pelle viva dei veneziani, al quale, certamente, ci saremmo sottratti volentieri”.

Par tera e par mar! Venezia ha detto no alle Grandi Navi

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E hanno anche il coraggio di chiamarle “navi”. Veri e propri villaggi turistici galleggianti che col mare non hanno niente a che fare se non quello di muoversi sopra come fosse una autostrada costruite solo per loro. Grandhotel alti come grattacieli “dotati di ogni confort” - come non mancano mai di specificare i depliant delle agenzie - come piscine, saune, giostre d’acqua, night club, discoteche e ristoranti da una a cinque stelle. Sono queste le Grandi Navi alle quali viene consentito di devastare la laguna inquinando ad ogni passaggio come 14 mila auto, sollevando masse d’acqua che sventrano i delicati fondali lagunari ed impattano sulle rive della città abbattendone le antiche fondamenta.
Uno scandalo ambientale, sociale, artistico. Uno scandalo commesso nel nome del profitto delle lobby crocieristiche europee che dettano leggi a Governi ed amministrazioni.



Proprio per questo, le Grandi Navi, come è stato ribadito nella “tre giorni” di incontri svoltasi tra venerdì 8 e domenica 9 giugno a Venezia, rientrano a pieno titolo tra le Grandi Opere: mercificano e distruggono un Bene Comune (la laguna e la stessa città), per accumulare grandi guadagni in mano di poche società private. E proprio come per le Grandi Opere, la città e i suoi cittadini, non solo non ne ricavano nessun vantaggio, ma vengono posti nella condizione di dover pagare le spese economiche ma anche ambientali del dissesto causato. Vari studi di docenti ed economisti di Ca’ Foscari hanno abbondantemente dimostrato che Venezia non ha nessuna ricaduta economica nella presenza di questi Alberghi del Mare, in quanto il turismo da loro indotto - e vi posso assicurare che Venezia non ha bisogno di ulteriori promozioni turistiche, anche in tempi di crisi! - è un turismo “mordi e fuggi” da mezza giornata che si esaurisce sul “tutto compreso” della nave-albergo che offre anche la possibilità di acquistare nei negozi sui ponti anche l’immancabile gondola in plastica e altri souvenir.
Ma anche al di là dell’aspetto economico, non possiamo tacere sui rischi inerenti al passaggio di queste enormi scatoloni di ferro in un canale strettissimo come quello della Giudecca. E’ appena il caso di ricordare cosa è successo al Giglio e a Genova. E se un simile incidente si verificasse davanti alla basilica di San Marco?
Con queste premesse, è facile intuire come la “tre giorni” organizzata dal comitato cittadino No Grandi Navi, alla quale ha aderito l’intero arcipelago associazionista che opera nella Città dei Dogi, sia stata caratterizzata da una ampissima partecipazione di pubblico. Il cuore delle iniziative è stata l’isola di Sacca Fisola, estrema propaggine della Giudecca, cui è collegata da un ponte, dove i ragazzi del laboratorio Morion hanno attrezzato un campeggio internazionale.
Da sottolineare, a dimostrazione di quanto i destini di Venezia destino più preoccupazione all’estero che a casa nostra, la presenza di numerosi portavoce di comitati No Grandi Opere provenienti dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna e da altri Paesi d’Europa. La lista delle adesioni alla “tre giorni” è davvero troppo lunga per essere riportata ma potete scorrerla collegandovi al sito del comitato organizzatore www.nograndinavi.it, dove potete anche vedere le foto di questi grattacieli ambulanti e farvi una idea sul loro impatto nella città più fragile del mondo.
Dopo gli incontri è venuto anche il momento di manifestare. E la città lo ha fatto per tutta la giornata di domenica rispolverando un antico motto di guerra: “Par tera e par mar!” Per terra e per mare. Le violente e del tutto ingiustificate cariche della polizia dalle quali i manifestanti si sono riparati con salvagenti e canotti, non sono riuscite a disperdere i cortei. Né quello di terra, né quello d’acqua. Per tutta la giornata, le Grandi Navi sono rimaste ferme alle banchine e non sono riuscite a forzare il blocco neppure con l’aiuto degli elicotteri e dei motoscafi della polizia.
Per un giorno almeno, la laguna si è liberata dai suoi mostri marini.
“Tre giornate straordinarie - ha commentato Tommaso Cacciari, del laboratorio Morion -. Migliaia di persone sono scese in piazza nonostante le prescrizioni della questura e si sono rimpossessate della città e delle sue acque espropriate dalla Capitaneria di porto metro dopo metro, sino a conquistarsi il diritto di manifestare contro queste grandi opere galleggianti che si ostinano a chiamare navi”.
Proprio come per le Grandi Opere, le Grandi navi sollevano, oltre che un problema ambientale ed economico, anche un problema di democrazia. A Venezia, nessuno le vuole. Non le vogliono i cittadini, non le vogliono i residenti che ad ogni loro passaggio, causa l’impatto delle onde, vedono il water di casa tracimare liquami. Non le vogliono gli ambientalisti e non le vuole neppure l’amministrazione comunale che da tempo ha chiesto alle autorità competenti di spostarle dalla laguna. Eppure le Grandi Navi continuano a solcare il canale prospiciente il “salotto buono di Venezia” - piazza San Marco - come fosse casa loro. “Per un antiestetico gabbiotto sotto il Campanile - ha osservato il consigliere comunale Beppe Caccia - è giustamente intervenuto il ministro dei beni Culturali in persona. Eppure per le grandi navi che oltre ad essere antiestetiche inquinano e devastano, nessuno si scomoda”. Per questo, dicevamo, il problema delle grandi navi sta dentro un più ampio problema di democrazia. E’ un problema di “chi comanda a Venezia?” Tutto qua.
La grande mobilitazione ha segnato anche un ulteriore punto a favore di Venezia. Come da tempo chiedevano gli ambientalisti e lo stesso Comune, il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi ha anticipato la convocazione del cosiddetto Comitatone, l’organo Interministeriale per la programmazione previsto dalla Legislazione speciale per Venezia, con un ordine del giorno tutto dedicato alle Grandi Navi.
Cosa possiamo aspettarci da questo incontro? Scorriamo la lista dei partecipanti. Non sono state convocate le associazioni ambientaliste. Non ci sarà neppure il Ministero per la Cultura che avrebbe il compito tramite le Soprintendenze di tutelare i beni architettonici (come se Venezia non lo fosse...). Ci sarà invece il sindaco di Venezia, e vorrei vedere il contrario, ma ci saranno anche i rappresentanti della Regione la cui amministrazione è tutta in mano a Pdl e Lega che ha la sensibilità ambientale di un Mister Hyde e la cui attenzione nei confronti di una città che gli ha sempre votato contro è ai minimi storici.
Al Comitatone ci saranno anche tutti i rappresentanti delle lobby crocieristice e delle organizzazioni armatoriali italiane ed europee (ci chiediamo a che titolo sono state invitate), insieme a quegli organi dello Stato che da sempre hanno unicamente tutelato gli interessi delle Grandi Navi come la Capitaneria e l'Autorità Portuale di Venezia, tutti enti a nomine ministeriali. A costoro, il sindaco di Venezia dovrà spiegare perché la città non vuole essere giornalmente devastata dal via vai di questi cementifici di mare.
Il problema, come abbiamo scritto poco sopra, sta tutto qua: “chi comanda a Venezia?”

Ritorna la Primavera. Dall’Italia alla Tunisia per il Forum Sociale Mondiale

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Da Porto Alegre a Tunisi. Per la prima volta il forum sociale mondiale varca l’oceano per spostarsi in un Paese arabo. La capitale della Tunisia sarà la sede dell’incontro che si svolgerà da martedì 26 a domenica 30 marzo. Un appuntamento gravido di incognite. Che forum sarà? Riuscirà a ridare energia per una nuova spinta propulsiva a los dabajos, ai movimenti dal basso, per dirla con gli zapatisti, per ricordare a tutti che “un altro mondo è possibile”? Oppure si rivelerà, come è stato per gli ultimi forum, un contenitore vuoto, utile solo ai governi per farci rimbalzare e arginare le voci critiche alla globalizzazione liberista?
L’unico modo per rispondere a queste domande è quello di partecipare al forum sociale. Dall’Italia, tantissime associazioni, comitati, sindacati di base e movimenti vari sono in partenza per Tunisi. La delegazione più numerosa sarà probabilmente quella al seguito di Ya Basta! in collaborazione con Un Ponte Per. Quasi un centinaio di attivisti sta preparando gli zaini. Altri sono già in Tunisia per mettere a punto la logistica della “carovana” o per continuare i progetti di collaborazione per la realizzazione di media center a Sidi Bouzid, Regueb e Menzel Bouzaiane, nel sud del Paese.



I motivi per i quali Ya Basta! ha organizzato la sua carovana verso Tunisi, ce li spiega Vilma Mazza, portavoce dell’associazione: “Ci andremo per capire cosa sta succedendo nel mondo arabo. Un mondo che ci è molto più vicino, e non solo geograficamente, di quanto tanta stampa vorrebbe farci credere. Ci andremo per scambiare esperienze, percorsi e desideri con chi sulle coste del nostro stesso mare sta affermando con determinazione che indietro non si può tornare, con chi chiede a gran voce giustizia sociale, libertà e democrazia reale”.
Quasi una Odissea: un viaggio per conoscere speranze e battaglie di chi vive sull’altra sponda del nostro mare. Un viaggio per vedere con i proprio occhi e per ascoltare con le proprie orecchi. Un viaggio contro le mistificazioni. Niente come la primavere arabe ci hanno insegnato quanto fossero errati gli stereotipi benedetti dai giornali e dalle tv. Gli arabi, si diceva, sono fatti così: non hanno vissuto il Rinascimento, la Controriforma e le lotte operaie. Sono rimasti indietro nell’orologio della storia. La democrazia non è nel loro dna. Possono essere governati soltanto o dagli integralisti (nemici dell’occidente) o da dittature più o meno soft. Dittature che, per riflesso, diventavano amiche dell’occidente e quindi “tollerabili”. In fondo, sottolineavano anche commentatori che si richiamavano alla sinistra, è meglio così anche per loro!
Un bel cumulo di menzogne che proprio le primavere arabe hanno spazzato via insieme ai governi fascisti e torturatori. Perché l’aspirazione alla libertà, alla difesa dei diritti fondamentali e alla partecipazione democratica percorrerà anche strade diverse ma non ha religione o razza.
Eppure, a due anni di distanza, le menzogne sul mondo arabo continuano ad essere contrabbandate da media e opinionisti televisivi. La spinta riformista data dalle rivoluzioni è conclusa, è stato detto. Le grandi mobilitazioni popolari sono oramai storia. Nelle piazze arabe è sceso il silenzio e un nuovo ordine globalizzato ha ripreso il governo della situazione.
“E’ un dato di fatto - conclude Vilma Mazza - che le grandi mobilitazioni della primavera araba oggi si scontrano con forme politico-istituzionale che vorrebbero chiudere spazi di libertà e di costruzione di un futuro diverso. Ma contro questa deriva sono riprese un po’ dappertutto, con grande forza e risonanza, soprattutto in Egitto e Tunisia, le manifestazioni multitudinarie. Queste proteste in piazza ci aiutano a capire che la primavera araba non è stata solo una ventata passeggera ma che in questi Paesi è in corso una vera e propria rivoluzione, con tutti i suoi flussi e riflussi, i suoi limiti e delusioni, le sue innovazioni e potenzialità. Una rivoluzione che si è radicata nelle modalità del vivere quotidiano di uomini e donne insofferenti alle rigide imposizioni e che rivendicano le libertà individuali come uno status civile irrinunciabile”. Uno status che non ha colore, Paese o religione.

Il giro del mondo in ottanta piani

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Qualche giorno fa ho fatto un viaggio che mi ha portato ad attraversare oltre una ventina di popoli, altrettante lingue e un numero imprecisato di culture e di fedi religiose. Un viaggio lungo un centinaio di metri. Tutti in altezza.
Sto parlando di un grattacielo. Anzi “del” Grattacielo. E’ così infatti che a Ferrara, senza sforzare troppo la fantasia, chiamano il loro unico edificio che si stacca altissimo verso il cielo del capoluogo emiliano. Il Grattacielo. Ma fate attenzione: il termine va connotato con una forte enfasi negativa. Come se parlassimo di una favela di Rio de Janeiro o di uno slum di Città del Capo. Se - coraggiosamente - vi azzardate a salirne le scale, scordatevi la Ferrara dell’Ariosto e del Tasso. Qui siamo in un altro mondo. Anzi, in tanti altri mondi: quello di Khayyam, poeta e matematico allo stesso tempo, dei grandi “mari che non navigammo” di Hikmet o dell’esilio e dello spaesamento post coloniale dell’africano Achebe. Se fate lo sforzo di rinunciare all’ascensore, vi sembrerà davvero di viaggiare per terre esotiche respirando i persistenti odori di spezie che invadono i corridoi, ammirando le decorazioni che ornano gli stipiti delle porte. E non dimenticate di buttare un occhio sui campanelli per leggervi i nomi di famiglie le cui origini spaziano della Romania alla Nigeria, dal Marocco al Kazakistan, dalla Cina al Venezuela. Sui pianerottoli incontrerete persone che vi salutano con accenti e lingue diverse, augurandovi una buona giornata e le benedizioni dei tanti dei del vasto Creato.



Eppure, per i ferraresi, il Grattacielo è solo una anticamera dell’inferno dantesco. Luogo di pianti e stridor di denti. Una baraccopoli tutta in altezza di parlate, di riti e di razze strane. Fucine di spaccio, violenza e prostituzione. Inesplorabili territori di degrado sia fisico che morale dove si dice, si racconta e qualche volta anche si scrive che succeda di tutto anche se, alla luce dei fatti... non vi è successo mai niente!
Il Grattacielo di Ferrara è così una perfetta metafora di come in Italia vengono presentate le problematiche legate alla migrazione. Tanta paura da manipolare senza fatti concreti con i quali giustificarla. Ma si sa che il terreno più fertile per far crescere le paure è proprio quello della disinformazione!
Anche il nome della struttura, a ben vedere, è tutt’altro che corrispondete alla realtà. I grattacieli infatti sono due, simmetrici e alti cento metri per una ventina di piani, connessi da un paio di blocchi abitativi di due e tre piani. Ci troviamo a ridosso della stazione ferroviaria di Ferrara che, nell’elegante città emiliana, si infila proprio dentro il centro storico. Quartieri tradizionalmente riservate all’alta e ricca borghesia. Il Grattacielo infatti fu costruito, verso la fine degli anni ’50, sulle ali di una delle prime speculazioni edilizie ai bei (?) tempi del cosiddetto “boom economico”, quando gli economisti facevano credere alla gente che le risorse di questa nostra terra fossero inesauribili. Quei moderni appartamenti che facevano tanto “made in Usa” , costruiti per guardare la nobile città degli Estensi dall’alto in basso, erano destinati ai figli della cosiddetta “Ferrara bene” oppure a mero investimento immobiliare.
Fatto sta che quando il grattacielo fu inaugurato, nei primi anni ’60, quasi tutti gli appartamenti erano già stati venduti ma, per la maggior parte, a persone che non avevano mai avuto l’intenzione di trasferirsi là. Tutto sommato, vivere al ventesimo piano farà anche tanto “Stelle&striscie” ma mal si adatta alle abitudini tutte emiliane dei ferraresi, più propensi ai cappellacci di zucca che al Mac Donald.
Il Grattacielo cominciò a vivere solo in seguito alla prima ondata migratoria, alla fine degli anni ’70, quando giunsero nel capoluogo emiliano, e in particolare nella sua provincia, centinaia di migranti in cerca di lavoro e di dignità. In pochi anni, il Grattacielo si riempì di persone provenienti dal Africa settentrionale, dal vicino e dal lontano Oriente, dall’est europea e anche dal sud Italia. Persone che avevano in comune solo il fatto di essere povere e talmente disperate da dover sottostare alle dure regole del mercato nero degli affitti e rassegnarsi a convivere in dieci, quindici, per appartamento. Secondo i dati che mi sono stati forniti dal progetto “Ferrara città solidale e sicura”, di cui parlerò più avanti, il Grattacielo arrivò a dare ospitalità fino a 35 etnie diverse contemporaneamente (adesso se ne trovano “solo” 22).
La diffidenza nei confronti dei nuovi arrivati contribuì a creare un clima di ostilità e di pregiudizio nei confronti dell’edificio che si avviava lungo un inesorabile degrado. Le cronache di quegli anni registrano varie perquisizioni da parte delle forze dell’ordine che portarono a qualche arresto per spaccio. Nell’immaginario cittadino, il Grattacielo divenne così il Bronx di Ferrara. Pochi giornalisti ebbero il coraggio e l’onestà intellettuale di sottolineare che, tanto il mercato dei fitti in nero quanto quello della droga che affliggevano il Grattacielo, erano in mano a dei rispettabilissimi italiani.
Le cose non migliorarono con l’arrivo della Bossi Fini, nel 2002, quando anche i giornali di sinistra cominciarono ad utilizzare quotidianamente termini che io non posso che riportare tra virgolette perché essenzialmente scorretti come “clandestini” e altre parole sporche, per citare il bel libro di Lorenzo Guadagnucci.
Da questo momento in poi, la triste fama che si era creata attorno al Grattacielo cominciò ad incupirsi sempre di più anche se, nei fatti, non si trova un solo episodio di cronaca nera riguardo ai residenti della struttura, se non i sopra menzionati arresti per spaccio e un paio di scazzottate senza pesanti conseguenze avvenute peraltro nelle vicinanze della struttura. Vorrei vedere di quanti caseggiati in Italia, anche meno popolati, si potrebbe scrivere altrettanto nel corso di trent’anni di storia.
La svolta definitiva avvenne nel 2007, quando cominciarono ad arrivare le famiglie per i ricongiungimenti. Il Grattacielo, per così dire, si “normalizzò” arricchendosi di colorati giochi di bimbi sparsi sui pianerottoli e di donne, velate e non, che portavano su per le scale borse di spese.
La povertà arrivata in seguito alla crisi ha colpito duro su queste scale. Non tutti i migranti che oggi ci abitano sono in grado di sostenere le pesanti spese di condominio che prevedono lo stipendio del portiere, la manutenzione dell’ascensore e il riscaldamento centralizzato. L’intervento del Comune e il cambio dell’agenzia che gestiva il condominio hanno temporaneamente permesso ai residenti di affrontare i rigori invernali con i termosifoni accesi ma hanno anche evidenziato uno scoperto di oltre 300 mila euro.
“La vita si è fatta dura per tante famiglie del Grattacielo che, sino a poco fa, potevano contare su una rendita sufficiente a vivere, a pagare le spese condominiali e, in qualche caso, anche il mutuo della casa - mi spiega Roberta, una bella ragazza che lavora al sopracitato progetto -. Molti hanno perso il lavoro e oggi sono alla disperazione. Mi auguro che il Comune sappia trovare una soluzione. Adesso, ad esempio, stanno lavorando per separare i contatori del gas e decentralizzare l’impianto termico per abbassare le spese. Ma quello che mi preme sottolineare è che, oggi come nel passato, episodi davvero violenti non ne sono mai capitati. Eppure, se lo fai notare ad un ferrarese, lo vedrai sgranare gli occhi e blaterare che aveva sentito parlare di omicidi in serie e di stupri collettivi... tutte storie truci che altro non sono che mere leggende urbane. Io ci vengo da anni per lavoro a tutte le ore del giorno e della notte. Ci fosse mai stato qualcuno che mi ha fischiato dietro! Ma come si fa a far cambiare idea alla gente quando neanche i fatti bastano?”
Basta battere la parola “Grattacielo” nel motore di ricerca di uno dei giornali on line di Ferrara per vedere comparire un piccolo museo degli orrori. C’è chi invoca l’intervento dell’esercito, chi propone di abbattere la struttura con tutti quelli che ci sono dentro. Il tutto però è confinato alle solite dichiarazioni xenofobe di esponenti del Carroccio, o nelle lettere al direttore inviate da spaventati quanto ignoranti lettori, per lo più residenti in tutt’altra parte della città.
“Il Comune di Ferrara ha avuto il merito, grazie anche al progetto di cui faccio parte, Città Solidale e Sicura che non a caso ha sede proprio alla base del Grattacielo, di aver governato la situazione impedendo il nascere di una ‘Via Anelli’, come è accaduto a Padova - continua Roberta -. Oggi il Grattacielo è un edificio vivo e ricco di iniziative pubbliche. Negli uffici sistemati al primo piano, accanto a noi, lavorano decine di associazioni. L’unico appunto che vorrei fare agli amministratori è che si continua a dare questi spazi all’associazionismo che opera nel campo dell’emarginazione. In questo modo si alimenta la fama di ‘posto da sfigati’ che ha il Grattacielo. Mi spiego, non ho naturalmente niente contro chi si occupa, che so?, di disagio mentale, ma vorrei vedere alla porta di fianco alla nostra anche la targhetta di qualche associazione che lavora per promuovere la cultura, l’arte o lo sport. Certo, non è facile per nessuno superare certi pregiudizi. E’ capitato che alcune associazioni inizialmente abbiano rifiutato questi spazi, ma poi, quando ci sono entrati, non se ne sono più andate”.
Ma i pregiudizi sono duri a morire ed i fatti non bastano ad ammazzarli. “Qualche tempo fa - mi racconta Loris, un altro operatore del progetto - tutto il quartiere attorno al Grattacielo, stazione compresa, è stata invasa da legioni di scarafaggi. Grossi, neri e schifosetti... li trovavi dappertutto. Il problema è stato facilmente superato con una buona disinfestazione ma non ti dico quello che ci è toccato leggere nei giornali! Tutti accusavano i migranti di aver portato queste blatte dall’Africa. Poi uno studio scientifico spiegò che era una specie endemica della pianura padana! Ma l’immaginazione popolare continua ancora adesso a collegare l’invasione degli scarafaggi ai migranti del Grattacielo. Cosa vuoi che ti dica? Neanche fosse stata una invasione di zebre...”

Piccoli omicidi di frontiera

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E’ successo ancora. E anche questa volta era un profugo fuggito dall’Afghanistan. Lo ha trovato un camionista bulgaro. Il cadavere era rannicchiato dentro il portellone posteriore del suo autoarticolato, in fondo alla stiva del traghetto greco Kriti II salpato da Igoumenitsa. Aveva 23 anni. E anche lui, secondo il referto del medico del porto di Venezia, è morto per soffocamento. Proprio come Alì, poco più di un mese fa. Anche lui morto asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Aveva la testa infilata in un sacchetto di plastica. Assassinato dalla frontiera. Proprio come il piccolo Zaher, travolto con il suo quaderno di poesie in tasca dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale italiana. Omicidi che avremmo potuto evitare semplicemente rispettando i trattati internazionali sui diritti dei rifugiati o, come nel caso di Zaher, la normativa italiana sui richiedenti asilo. Ed invece i porti mediterranei continuano ad essere frontiere senza legge. Trincee in cui i diritti umani sono sospesi e affidati alla discrezionalità del momento. I profughi che hanno la fortuna di sbarcare ancora vivi vengono per lo più rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.


Quaranta ore dura la traversata da Patrasso a Venezia. Quaranta ore senza acqua, senza cibo, senza la possibilità non dico di andare al gabinetto ma anche di sgranchirsi le gambe. Quaranta ore rannicchiati dentro un container senza ricambio d’aria, a parlare sottovoce quando invece vorresti urlare. Poi, quando dai rumori dei motori in manovra capisci che la nave sta attraccando, ti tocca anche infilare la testa in un sacchetto di plastica perché arriva l’ispezione della polizia di frontiera italiana che si è dotata di quei nuovi rilevatori sonori capaci di individuarti anche dal solo respiro. Un vero prodigio della tecnologia che davvero poteva essere dirottato a migliore causa. Perché sai bene che se ti prendono, ti riconsegnano al servizio di sicurezza della stessa nave in cui ti eri nascosto, senza darti prima l’opportunità di contattare un legale o un operatore sociale per formalizzare la pratica per la richiesta di asilo, come prevederebbero tutte le normative a tutela dei rifugiati, da quelle internazionali a quelle europee sino alla stessa legge italiana. Ma i porti, lo abbiamo detto, da quello di Venezia a quello di Ancona o di Brindisi, sono bunker dove il diritto non vale niente. Ti riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevi cercato di fuggire. E allora sai che ti attendono altre 40 ore nello stesso inferno che hai appena patito, chiuso a chiave in un qualche gavone della nave. E poi le botte, le violenze e la prigionia in Grecia. Un Paese dove, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea - guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto - non hanno nessuna speranza di venire accolti.
E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Dalla Grecia, se ti va male, sarai rispedito in Turchia o direttamente dal Paese da cui avevi tentato di fuggire. Per molti, per tanti, è una condanna a morte. Se ti va bene, il destino ti potrebbe riservare un’altra opportunità. Un altro tentativo di raggiungere l’Italia, magari dentro la stessa nave della prima volta. Un altro giro di giostra. Un altro tiro alla roulotte russa, sperando di sopravvivere ancora.
Tutto questo accade tra l’indifferenza generale. E nelle due righe che i giornali locali, quando ci scappa il morto, non possono fare a meno di dedicare alla questione, hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno pure il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.
Il caso del ragazzo afghano di 23 anni, arrivato morto asfissiato da Igoumenitsa, è solo una delle ultime tragedie accadute sulla traversata adriatica. Il nostro Paese, in questo caso, non ha responsabilità dirette, come invece nel caso di Zaher, come invece nei tanti casi dei richiedenti asilo, non di rado minorenni, illegalmente respinti senza concedere loro l’opportunità di formalizzare le richieste di asilo.
Tanti casi, abbiamo detto. E uno solo sarebbe già troppo. Ed è anche difficile conoscere con esattezza il numero di questi respingimenti. Non soltanto per le solite e pretestuose “ragioni di sicurezza” con le quali la polizia portuale nega anche ai giornalisti l’accesso ai dati, ma anche perché tutto viene svolto in una clima di totale sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Per l’autorità portale, questi richiedenti asilo non fanno neppure statistica! Se non hai documenti, non hai neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.
Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 sarebbero comunque più di 600 i richiedenti asilo respinti e consegnati al personale di bordo delle navi in cui si nascondevano senza aver prima incontrato un mediatore o un interprete. E vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un Paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di
non refoulement.
Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo. Una dura sentenza di condanna che rischia di essere replicata quando la stessa Corte darà, come tutto lascia supporre, ragione anche al simile ricorso, tutt’ora pendente, presentato grazie all’assistenza legale di alcune associazioni veneziane costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, da 35 migranti respinti al porto di Venezia. Metà di loro erano poco più che bambini. Piccoli omicidi di frontiera.

Quegli ignobili respingimenti ai porti di cui nessuno parla

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C’è chi, come Alì, è arrivato già morto. Asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Chi, come il piccolo Zaher, è stato travolto dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale. Tutti gli altri vengono rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.
Li sbattono a forza nelle stesse stive in cui si erano nascosti per raggiungere l’Italia senza dar loro la possibilità di contattare prima un legale o un operatore sociale. Li riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevano cercato di fuggire, senza concedere loro il diritto - riconosciuto dalla legge Italiana oltre che dalla normativa europea - di formalizzare la pratica per la richiesta di asilo. Vengono rimandati, senza se e senza ma, verso quella Grecia dalla quale hanno tentato di scappare e dove li attendono violenze, botte, prigionia, umiliazioni, sofferenze e torture. E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Perché in Grecia, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea - guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto - non hanno nessuna speranza di venire accolti.


Ecco quanto accade, tra l’indifferenza generale, in tutti i porti adriatici dove fanno scalo i traghetti greci. Venezia soprattutto, ma anche Brindisi, Ancona, Bari. E nelle cronache dei giornali hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.
Il caso di Alì, arrivato morto asfissiato, assieme a due compagni anch’essi afghani sopravvissuti per puro miracolo, è solo una delle ultime tragedie al porto di Venezia. Una frontiera dove il diritto non esiste ed è tutto demandato agli umori e alla discrezionalità della polizia di dogana. Quasi mai, quando questi profughi vengono scoperti nelle stive, viene data loro l’opportunità di contattare gli operatori competenti per formalizzare la richiesta di asilo. Anche l’assistenza sanitaria, dopo quella tremenda traversata in fondo alle stive, è ridotta al minimo e limitatamente al tempo necessario per reimbarcarli. E stiamo parlando di uomini ma anche di donne e di bambini (sia Zaher che Alì erano entrambi minorenni) in fuga da guerre e fame, arrivati in Italia dopo un’odissea di privazioni che ben raramente dura meno di due anni.
Queste sono le persone cui neghiamo il fondamentale diritto all’asilo. Ed è difficile anche conoscere con esattezza quanti sono i profughi che rimandiamo ogni anno in Grecia perché tutto viene svolto in una clima di sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Chi non ha documenti, non ha neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.
Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 più di 600 richiedenti asilo sono stati respinti e consegnati al personale di bordo delle navi
greche senza aver prima incontrato né mediatori né interpreti. Vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement.Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo.
Un simile ricorso portato avanti da 35 migranti respinti al porto di Venezia, circa metà dei quali minorenni, grazie all’assistenza legale di alcune associazioni locali costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, è tutt’ora pendente presso la stessa Corte e si attende la sentenza a breve.
Da sottolineare come la stessa amministrazione comunale di Venezia sia di fatto estromessa dalla possibilità di intervenire in un porto militarizzato ed inteso come “zona franca”, dove i diritti sono assolutamente secondari rispetto ai criteri, del tutto ipotetici, imposti dalla “politica della sicurezza”. Neppure agli operatori sociali messi a disposizione dal Comune viene consentito di avvicinare sempre i profughi sbarcati e, in pratica, gli viene impedito di svolgere il loro compito di assistenza e di tutela dei diritti umani. E non scrivo “diritti dei migranti” perché i diritti sono di tutti e quando sono negati lo sono per tutti.
A tale proposito, l’assessore veneziano alla pace, l’ambientalista Gianfranco Bettin, ha commentato in occasione di un incontro con la stampa organizzato dall’Osservatorio Unar: “La situazione che oggi viene denunciata è l’esito di una politica svolta quasi senza eccezione di continuità in Italia da circa un ventennio, basata sull’ossessione di limitare l’immigrazione e di respingere sempre e comunque. Nel caso di quanto accade nel nostro porto, siamo di fronte alla versione più odiosa di questa pratica, perché se respingere persone che sfuggono dalla povertà e dal bisogno sociale è comunque una grave violazione, respingere persone che fuggono da luoghi in cui è messa a repentaglio la loro vita è un crimine contro l’umanità ancora più odioso. Respingere i richiedenti asilo non significa solo negare i più elementari diritti umani ma anche perseguire una politica velleitaria, irrazionale e alla fin fine anche controproducente. Senza una gestione trasparente dei percorsi di queste persone che comunque non hanno scelta e sono costrette dalla guerra e dalla povertà a venire qui, non si fa altro che lasciare campo libero a quelle organizzazioni criminali alle cui violenze assistiamo tutti i giorni”. Eppure, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo e sta succedendo nel mondo arabo con le rivolte di primavera, e anche a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini. Ma i nostri porti e in particolare il porto di una città storicamente aperta a tutte le culture come Venezia, non possono rassegnarsi ad un degradante ruolo di frontiere senza legge. Non è questa la loro storia. Non è questa la loro tradizione. Devono tornare ad essere quello che sono sempre stati: porte aperte verso altri mondi e altre culture. Non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità della politica del momento.

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